mercoledì 3 ottobre 2012

Oratorio civile per Roberto Dinacci - Voci per un ragazzo speciale

 
 
C’è un punto che il muro è basso, non è difficile scavalcare. Nel buio, rischiarato appena da una luna lontana e dai lumini perenni, c’è uno strano senso di pace davanti alla tua tomba. Non mi piace lasciarti solo la notte. D’altra parte, ogni volta che c’è stato bisogno, mi hai vegliato tu. Ti ricordi quel giorno che svenni per strada e stavo lì sul marciapiedi e nessuno voleva avvicinarsi: “Chillo è pazzo… magari pure drogato”? Tu mi caricasti in macchina e mi portasti in ospedale e hai insistito, fermamente, dolcemente , finché non m’hanno visitato e fatto le analisi. Non ci conoscevamo quasi, ma dopo tu mi hai insegnato a mettere un poco d’ordine nella mia vita strapazzata.
Sapevi tutto. Leggevi, ti informavi. E continuamente organizzavi incontri. Avevi una mente veloce e acceleravi con frenetica pazienza la nostra lentezza. Ma c’erano cose che proprio non capivi. Fino alle prime ore dell’alba, chiusi nella tua macchina, l’umido che entrava nelle ossa, provavo a spiegarti quanto falso e quanto male c’era intorno a te, e gli imbrogli e le cattiverie. Tu sgranavi gli occhi e sorridevi. E mi facevi credere che un altro mondo fosse possibile se cominciavamo a fare noi le cose giuste senza mai arrenderci: con serietà, cercando prima di aiutare il prossimo e poi tutto il resto.
T’eri messo in testa che dovevo fare un lavoro, me ne trovasti uno: scaricavo i pacchi in uno di quei grossi supermercati persi in un enorme vuoto che uno si dice: non ci verrà mai nessuno, e invece era sempre pieno di gente. Non è che mi dessero tanto e neppure avevo tanta voglia d’andarci. Ma tu venivi a prendermi la mattina, prima di cominciare il tuo, di lavoro e, se non potevi, facevi tante di quelle telefonate, finché mi sono abituato ad alzarmi e andare. Insistevi, ma insistevi gentile. Tutto quello che so l’ho imparato perché quando combinavo qualcosa di buono eri felice come un bambino.
Quando restai incinta, mi sentii perduta perché non avevamo una lira e lui aveva pure perso il lavoro. Io il bambino lo volevo, in casa dicevano che ero pazza. Tu ci hai portato in un centro commerciale e hai comprato tutto: la culla, il passeggino, il biberon. Non volevo approfittare, tu sorridevi: deve essere bello, questo bimbo, che gli farò sarò da padrino. Scegliemmo alcune tutine: rosa no e neppure azzurro, non sapevo ancora se era maschietto o femminuccia, presi tutte cose gialline e verdine. Quando lei è nata non c’eri più; la madrina l’ha fatta un’altra ragazza che pure a lei avevi regalato un corredino.
Che strano non sentire la tua voce. Mi ricordo tutto di te, ma la voce non riesco più a sentirla. Eppure tu parlavi continuamente. Sempre a cercare di convincermi. Battevi sempre su due punti: studiare e impegnarsi per la collettività. Citavi Gramsci: “Istruitevi, abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Organizzatevi, abbiamo bisogno di tutta la vostra forza” oppure Berlinguer: “… il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell'uomo, del suo benessere, della sua felicità”.Io all’inizio non sapevo neppure chi erano. Ma tu agivi oltre che parlare e io ti credevo. Ho cominciato a fare politica con te.
Il campetto non c’era, ci mettevamo per strada a dare qualche calcio al pallone. Ci prendevamo tra noi a male parole, era il nostro modo di sentirci vivi, mentre il vento si portava via la giornata e l’altra sarebbe stata uguale. Tu venivi a giocare con noi. Eri il re dei colpi di tacco, ma usavi solo parole pulite, calde e sincere: e lasciavi una scia di: magari si può. Abbiamo ottenuto un campetto. Ci portavi a interrogarci. Forse, per diventare uomini basta farsi le domande giuste. Tu riuscivi pure a rispondere. Ci hai detto tutto, ci hai dato tutto, non hai lasciato niente in sospeso: ora tocca a noi.
Che risate a casa mia, quando passavi a salutare mia madre, mio padre, le mie sorelle e mio zio e la zia che stanno proprio di fronte. Noi siamo gente comune, con una casa comune, potevi certo passare la serata con altra gente, in altri luoghi. E invece stavi qui a cena, attento, premuroso con tutti, un regalino ogni volta alle donne di casa. Ti si notava, ma non facevi pesare niente: né la tua eleganza né il tuo ruolo e neppure le tue conoscenze. Caso mai le mettevi al servizio al momento giusto: con garbo e discrezione. Quando mia madre si sentì male solo perché tu chiamasti il medico giusto s’è salvata.
Ci ho litigato tante volte col mio fidanzato ché perdeva tempo con te. Già uno ha tanti guai da queste parti e pure mettersi a cercare per strada i ragazzi che la strada hanno scelto: ma dico io, non ci riescono i preti e neppure i professori… Ti guardavo male. Un altro si sarebbe offeso alla mia scortesia, tu no. Alla fine capii che portarti appresso i ragazzini a volantinare, e dipingere la sede del partito o a riempire buste di cibo per chi non ne aveva, forse era meglio per tutti: che forse, un giorno, camminare per il paese sarebbe stato più sicuro. Ma tu davvero credevi che la loro vita poteva cambiare.
 
 
copertina di Cecilia Latella per "L'isola di Roberto"
 
Non eravamo mai stati a Roma – tu eri passato a prenderci in piazza un sabato mattina, come avevi promesso, anche eri tornato dal lavoro ch’era già notte. Per le strade della capitale, al Colosseo, ci sembrò di visitare il mondo intero. Tu ridevi e scherzavi insieme a noi. Non parlavi come gli altri. Forse per la voce, ché la tenevi sempre bassa. Litigavi con noi ma senza perdere la pazienza; il tempo sì, lo perdevi appresso a noi. Nessuno pensa che a quindici anni si hanno tanti problemi, grandi come montagne, che pare di non uscirne più e si diventa difficili e non si crede più a nessuno. Tu ci prendevi sul serio. Di te ci si poteva fidare.
In piazza fuori la chiesa ci passavamo ore, la sera, e pure la domenica mattina sul tardi, a bere qualcosa, a sfotterci sui vestiti, i capelli, il peso, o a parlare di televisione e di calcio, di diete e di palestre e dei fatti dell’uno e dell’altro. Tu non mancavi mai. Se non riuscivi a passare prima da casa a toglierti giacca e cravatta ti prendevamo in giro: è arrivato ‘o ministro, ma allo scherzo ci stavi sempre. Stavi lì ore con noi a organizzare feste, a preparare viaggi che poi non si potevano fare e, senza quasi accorgercene, ci portavi a parlare del futuro e di come volevamo la città. Noi, che della città e del futuro ci si potesse occupare non l’avevamo mai pensato.
L’allegria entrava con te. Non c’è uno del paese che non hai portato in questo bar: “Ciao, caro, vieni a prendere un caffè…”, o un dolce, o un gelato… Ti importava tutto di tutti, di tutto ti informavi: Tutto apposto? Discussioni senza fine, e risate. Nessuno conosceva il paese quanto te. Sempre in giro, circondato da persone che avevano bisogno di qualcosa: il tuo sorriso era per tutti. Qualunque cosa dicevi insegnavi sempre, mite e dolce rivoluzionario: e a noi, ragazzi e ragazzini, davi chiavi in mano per vedere le cose in un altro modo.
Nelle stanze del potere, splendido compagno di dissimulazione ironica, dotato di un’incertezza quasi trascendente… Tu non eri un rito, usavi la cravatta per penetrare, per poi parlare con il sorriso, la tua politica era fatta di sguardi e pacche sulle spalle , di frasi spezzate ... di suggestioni, di ue’ fra’ ... Roberto, tu eri Roberto Saviano che parla con Pino Mauro, non lo studia , non lo capisce, lo vive. Tu eri uomo, non sezione; non eri grisaglia ma un’incantevole maglietta Fred Mello.
Come potevo non incantarmi?Ti vedevo per strada sempre circondato di gente, unico punto di riferimento dei giovani, una bandiera. Timido, col rossore facile sul volto, eppure sicuro di dove volevi arrivare. Buono. E sorridente, di un sorriso unico, caldo e rispettoso, generoso e accogliente: soprattutto se qualcuno accettava il tuo aiuto. C’era chi ti diceva troppo ambizioso, ma tutti sapevano che avresti portato in alto il nome del paese. Io ti seguivo da lontano e facevo il tifo per te. E a certe ombre rapide nel tuo sguardo mi chiedevo se era una ferita profonda d’amore a farti dare tanto di te.
Non sapevo né leggere né scrivere, a scuola facevo troppo casino e le maestre avevano detto a mia madre: tenetevelo a casa, che poi gliela diamo la licenza e così il giorno degli esami mi interrogarono e mi chiesero: quanti sono i giocatori di una squadra di calcio? Undici. Bravo. Venni promosso, ma non sapevo niente. Mi hai regalato un libro e una domenica hai cominciato a farmi lezione: mi girava la testa e mi veniva da vomitare, ma tu lì, che mi facevi ricominciare a leggere di nuovo. Sei ore di seguito: quel giorno ho deciso che è bello imparare.

 
Mio figlio me l’hanno tolto i servizi sociali, dicevano che non ero buona a occuparmi di lui, ma come fa una donna sola se a quello la testa non è buona. Stava sempre arrabbiato mio figlio, pronto a litigare con tutti. Neppure in comunità si trovava bene, ma se parlava di te gli ridevano gli occhi. Diceva che gli passava l’ansia perché tu lo guardavi con sincerità. Allora sono venuta a pregarti per lui. Altri non dicono no, ma poi niente fanno. Tu mi hai detto di non preoccuparmi. Non aveva mai voluto saperne niente della scuola, mio figlio. Ancora non capisco come passò con ottimo gli esami al serale.
Da quando mio padre se n’è andato di casa, ho odiato la mia famiglia, pure mia madre che sta sempre nervosa e i miei fratelli, sfrantumati quanto me. Ti ho conosciuto una sera in piazza, mi hai dato da parlare come a un amico e mi hai portato con te in una tipografia a prendere dei libri che avevi fatto stampare per chissà chi. Camminavo nella vita come un cieco con le stampelle o sui pattini a rotelle. Mi hai fatto aprire gli occhi su tutto. Nessuno mi ha dato quello che mi hai dato tu. Sei stato mio fratello, mio padre e pure mia madre.
A un certo punto il tono della voce sale. Capita in tutte le riunioni, anche quelle più tranquille. Tu non urlavi mai. Non avevi cautele a dire, ma ascoltavi paziente tutti: idee precise in testa e una grande capacità di confronto. Avversario leale, pronto a mediare, quando c’era spazio per mediare: se no, no. Le meschinità, i veleni, le volgarità di chi sta in qualsiasi gruppo che abbia o sembri avere un potere, per quanto minimo, non ti appartenevano. Guardavi avanti, come se niente di tutto ciò potesse distogliere lo sguardo dal tuo obiettivo: che, in fondo, poi, era la vittoria che facesse vincere tutti.
Mettevi un cd e andavi. Sempre in giro, sempre in movimento. Sempre a rincorrere i tuoi impegni. Quelli ufficiali non riempivano che una parte della tua agenda. Sempre in ritardo, o quasi. Ma arrivavi sempre. Cavolo, perché volevi, in quelle poche ore che riuscivi a rubare per noi, farci anche vedere il telegiornale o leggere qualche articolo? Ma poi avevi una parola per ciascuno. E se mi toccava qualche manciata di minuti solo per me, ogni rabbia sbolliva perché come una luce mi si accendeva addosso e mi sentivo importante: davvero qualcuno.
“Ce l’abbiamo fatta, eh? eh!”. Quando nei tuoi tentativi di allargare un progetto solidale cercavano di bloccarti, non ti fermavi e cercavi di convincere ancora: senza frasi pesanti, senza accuse, senza rivendicazioni, con umiltà, con dolce testardaggine, con quel tuo tono gentile. E appena uno spazio si apriva, snocciolavi luoghi e situazioni dove era più urgente intervenire. Perché tu stavi in mezzo a quei ragazzi attento a recepire i bisogni e le istanze di tutti e conoscevi bene le pieghe di un territorio in cerca di un riscatto, di una speranza. E ci hai fatto guardare tutti più in là.
Risposte concrete. Ecco io non sapevo cosa volevo e neppure i miei coetanei, ma con te abbiamo capito che quello che serve è qualcosa magari piccolo, ma che ti cambia la giornata. E che la grande politica si fa coi programmi, i progetti e, certo, la lotta ai clan della camorra e alle tante camorre che dominano dalle nostre parti. Ma anche dando il proprio tempo e un po’ del proprio sapere e rinunciando a qualcosa per gli altri. Strana parola la rinuncia, neppure i preti quasi la usano più: ma io t’ho visto fare a meno della nazionale in tv o d’una festa per andare a cercare, in un quartiere malfamato, qualche ragazzo che t’aveva chiamato perché aveva bisogno di un consiglio o di una spalla su cui piangere.
Stupore di incontrare un ragazzo capace di ascoltare, di vedere, di avviare su strade nuove. Con negli occhi la luce di un intimo sogno di giustizia e verità. E nelle parole, nei gesti, nelle azioni, nei silenzi, l’entusiasmo, la tenacia, la pacatezza, il senso di responsabilità, la generosità, la competenza e l’allegria di chi lo persegue come un imprescindibile dovere morale. Stupore nei miei occhi perché, come mai nessuno, riconoscevi il mio lavoro e lo volevi usare: non per la tua carriera, ma piccolo tassello per mettere in relazione pezzi di territorio. Stupore di sapermi vista oltre l’apparire. E ancora stupore, nei tuoi occhi, perché senza parole io sapevo cosa avevi nel cuore.
Il tuo sorriso, la ricerca di dialogo e la sincera voglia di comprendere: questo mi ha subito sorpreso e ben disposto verso di te. Mi hai fatto il dono di farti dare tanto da me ed è stato un piacere alimentare la tua immensa sete di conoscenza e verificare quella tua straordinaria capacità di interazione, passando dall’intuizione, alle idee, alle ipotesi di lavoro, dal nulla ai fatti. Avevi lo stesso sguardo di fiducia incondizionata per tutti. Ci davi l’entusiasmo di credere che si poteva fare e si faceva davvero. Con audacia organizzavi la speranza dove non c’era nessuna ragione per credere a un domani.
Molte persone pensano che siamo dei bravi ragazzi e che non volevamo fare ciò che abbiamo fatto, ma tu sapevi che non era così, altre persone pensano che siamo irrecuperabili, ma anche questa volta tu sapevi che non era così. Avevi una percezione della vita che a noi ci faceva molto riflettere, abbiamo sempre pensato che c’era più nero che bianco, ma tu ci hai fatto conoscere l’insieme dei colori, togliendo la nebbia che ci impediva di metterli a fuoco
Davi tutto di te: il tempo, i soldi, la fiducia, il sorriso. E pretendevi che crescessimo: con i nostri tempi, ma con obiettivi chiari e diventando forti e autonomi. E quando, e la seconda e la terza, non riuscivamo a rispettare le tue consegne – studiare, lavorare, occuparsi di chi sta peggio, prendersi a cura la città e il mondo – di fronte alla tua dolce fermezza qualcuno si metteva paura: non ci vorrai più bene? Ripetevi paziente che dovevamo diventare grandi e responsabili ma con un sorriso infinito che frantumava i ghiacci del cuore continuavi: “Fratellino, ma che dici? Io per te, o per te, o per te… sarei pronto a dare la vita”.
Guardo le tue foto, rileggo le tue mail, meno male che non ho cancellato niente; ho sempre ricopiato gli sms più belli: tu non eri mai banale. Vorrei ripetere il tuo nome tutto il giorno e non sopporto che si parli di te, mi fa troppo male. Penso che dovrei dimenticarti, se voglio vivere. E non posso che ricordarti per non morire. Sapevi di terra e di cielo. E di profumo di fiori di mare. Mi sento circondata dall’acqua. Sono diventata un’isola. Costruirò ponti. Perché questo vorresti da me.

4 ottobre 1980/2 marzo 2008

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