giovedì 11 ottobre 2012

La fiera di Francoforte e i romanzi stampati in Calabria

 
 
“La crisi dei consumi colpisce pesantemente il mercato del libro in Italia che nel 2011 aveva avuto un -3,7% nel giro d'affari e nei primi nove mesi del 2012 peggiora ottenendo un -8,7%. Per la prima volta dal 2007 cala anche la lettura: oggi sono 25,9 milioni gli italiani che leggono almeno un libro, 723 mila meno del 2010. Lievi segni positivi per il mercato ebook. Questo dai dati del Rapporto sull'editoria in Italia, a cura dell'Ufficio studi Aie, presentato oggi alla Fiera di Francoforte”.

Questo secco comunicato dell’Ansa del 10 ottobre, giorno dell’inaugurazione, nella città tedesca, della principale fiera libraria del mondo individua, giustamente, il fattore principale della diminuzione di vendite di libri in quella crisi economica che ha tagliato un po’ tutte le spese degli italiani. Nello stesso tempo registra però l’aumento, lieve ma significativo, della vendita di ebook, che corrisponde alle esigenze di un pubblico che, in qualsiasi momento e da qualsiasi sperduta località, può caricare sul suo Kindle il libro che intende leggere: benedetta Amazon,  che libera dall’incombenza di dover andare in libreria, magari tornarci, caricarsi di un peso e così via.


In epoche di magra, ancora più forte dovrebbe farsi quella selezione dei testi, che appare, invece, piuttosto carente: ci sono troppi libri, e, soprattutto, troppi libri la cui qualità non raggiunge la suola delle ballerine (nel senso di scarpe). Un potenziale lettore di medio livello, che non legge le pagine culturali dei quotidiani più attenti ai libri e che non è accompagnato nella scelta da librai preparati (l’ignoranza di una parte dei commessi di alcuni megastore consentirebbe la pubblicazione di un libro di strafalcioni), magari dopo una serie di esperienze che gli hanno – non si può neppure dire: regalato, perché l’ha pagato, spesso troppo – una buona dose di noia, leva mano e si gratifica con un film in compagnia, o una cena con gli amici.

Chiaramente la tematica potrebbe essere ben più ampia, ma mi limito ad alcune considerazioni su alcuni romanzi pubblicati da piccole case editrici calabresi: naturalmente, non intendo generalizzare, ma riferirmi a specifici casi (che non citerò).
 

Mi capita di leggere romanzi stampati in Calabria che – e, nell’attuale panorama letterario italiano, neppure questo è scontato – hanno una storia, magari pure interessante; ma che si possono leggere solo per professione, per affezione a questo o a quell’autore, per interesse alla terra di cui parlano.

Che cos’è che rende gradevole (e intendo per gradevole non il banalmente piacevole, ma quell’insieme fatto di interesse, coinvolgimento, nuovi pensieri che fioriscono, emozioni ecc. ecc.) la lettura di un libro? Una buona trama, uno stile adeguato alla trama, una lingua che, sulla carta o sullo schermo, diventi il timbro di voce giusto per quel racconto. E il ritmo giusto: non troppe pagine, né troppo poche; l’equilibrio tra le varie parti della narrazione; la definizione dei personaggi. E’, insomma, tutto quello che estranea per qualche ora il lettore dal proprio mondo e lo fa camminare e muovere e respirare in un altro tempo e in altro spazio (se, per avventura, lo spazio e il tempo sono gli stessi del lettore, quest’ultimo deve essere messo in grado di vederli come non li ha ancora visti), concentrato e teso a cogliere lo snodarsi di altre vite che, buone o cattive, acquisiscono, pagina dopo pagina, lo status di conoscenti, amici, familiari della propria città interiore.


Tornando ai romanzi calabresi di cui sopra, la mia sensazione è che manchino di adeguato editing. Intendiamoci: non ho la passione per gli editor, sono convinta che, con loro, non avremmo avuto né Dante, né Tolstoi, né Mann come li conosciamo noi. Ma. Ma un libro ha bisogno – forse non sempre, ma certo non poche volte – di scritture e riscritture, di tagli e rimpolpamenti, di revisioni e ancora revisioni. Ecco: molti romanzi che ho letto in questi anni, pubblicati da piccole case editrici calabresi, a me hanno dato la sensazione di potenzialità gettate alle ortiche.

Perché, anche se si riuscisse a fare miracoli di distribuzione, i suddetti non reggerebbero al passaparola: sono decisamente troppo lunghi, limitati da quell’urgenza del comunicare qualcosa (una convinzione, una scoperta) che fa l’effetto irrisolto dell’acqua e zucchero, o dell’acqua e sale, se quest’ultimo è rimasto sul fondo della tazza in cristalli non sciolti; con una sproporzione più o meno vistosa tra le parti; ecc. ecc. Sembrano soggetti bellissimi, ma che andrebbero asciugati, equilibrati, rivisitati. In una parola: riscritti. Più d’una volta (se necessario)


Ed è un vero peccato. Più d’una volta mi sono trovata di fronte a storie – l’ho già detto – che riscritte avrebbero (avuto) una ben più ampia dignità. Che tutto questo non sia (stato) fatto è, probabilmente, un problema di soldi: chi paga gli editor? Ma ho un dubbio in più: che, almeno talvolta, almeno in alcuni casi, non sia solo un problema di mancanza di soldi, ma ci sia anche un surplus di provincialismo. Come se non si credesse davvero che quella storia, quel romanzo, può davvero ambire a diventare uno dei (pochi) romanzi acquistati dagli italiani.

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