“La
crisi dei consumi colpisce pesantemente il mercato del libro in Italia che nel
2011 aveva avuto un -3,7% nel giro d'affari e nei primi nove mesi del 2012
peggiora ottenendo un -8,7%. Per la prima volta dal 2007 cala anche la lettura:
oggi sono 25,9 milioni gli italiani che leggono almeno un libro, 723 mila meno
del 2010. Lievi segni positivi per il mercato ebook. Questo dai dati del
Rapporto sull'editoria in Italia, a cura dell'Ufficio studi Aie, presentato
oggi alla Fiera di Francoforte”.
Questo
secco comunicato dell’Ansa del 10 ottobre, giorno dell’inaugurazione, nella
città tedesca, della principale fiera libraria del mondo individua,
giustamente, il fattore principale della diminuzione di vendite di libri in
quella crisi economica che ha tagliato un po’ tutte le spese degli italiani.
Nello stesso tempo registra però l’aumento, lieve ma significativo, della
vendita di ebook, che corrisponde alle esigenze di un pubblico che, in
qualsiasi momento e da qualsiasi sperduta località, può caricare sul suo Kindle
il libro che intende leggere: benedetta Amazon, che libera dall’incombenza di dover andare in
libreria, magari tornarci, caricarsi di un peso e così via.
In
epoche di magra, ancora più forte dovrebbe farsi quella selezione dei testi,
che appare, invece, piuttosto carente: ci sono troppi libri, e, soprattutto,
troppi libri la cui qualità non raggiunge la suola delle ballerine (nel senso
di scarpe). Un potenziale lettore di medio livello, che non legge le pagine
culturali dei quotidiani più attenti ai libri e che non è accompagnato nella
scelta da librai preparati (l’ignoranza di una parte dei commessi di alcuni
megastore consentirebbe la pubblicazione di un libro di strafalcioni), magari
dopo una serie di esperienze che gli hanno – non si può neppure dire: regalato,
perché l’ha pagato, spesso troppo – una buona dose di noia, leva mano e si
gratifica con un film in compagnia, o una cena con gli amici.
Chiaramente
la tematica potrebbe essere ben più ampia, ma mi limito ad alcune
considerazioni su alcuni romanzi pubblicati da piccole case editrici calabresi:
naturalmente, non intendo generalizzare, ma riferirmi a specifici casi (che non
citerò).
Mi
capita di leggere romanzi stampati in Calabria che – e, nell’attuale panorama
letterario italiano, neppure questo è scontato – hanno una storia, magari pure
interessante; ma che si possono leggere solo per professione, per affezione a
questo o a quell’autore, per interesse alla terra di cui parlano.
Che
cos’è che rende gradevole (e intendo per gradevole non il banalmente piacevole,
ma quell’insieme fatto di interesse, coinvolgimento, nuovi pensieri che
fioriscono, emozioni ecc. ecc.) la lettura di un libro? Una buona trama, uno
stile adeguato alla trama, una lingua che, sulla carta o sullo schermo, diventi
il timbro di voce giusto per quel racconto. E il ritmo giusto: non troppe
pagine, né troppo poche; l’equilibrio tra le varie parti della narrazione; la
definizione dei personaggi. E’, insomma, tutto quello che estranea per qualche
ora il lettore dal proprio mondo e lo fa camminare e muovere e respirare in un
altro tempo e in altro spazio (se, per avventura, lo spazio e il tempo sono gli
stessi del lettore, quest’ultimo deve essere messo in grado di vederli come non
li ha ancora visti), concentrato e teso a cogliere lo snodarsi di altre vite
che, buone o cattive, acquisiscono, pagina dopo pagina, lo status di conoscenti,
amici, familiari della propria città interiore.
Tornando
ai romanzi calabresi di cui sopra, la mia sensazione è che manchino di adeguato
editing. Intendiamoci: non ho la passione per gli editor, sono convinta che, con
loro, non avremmo avuto né Dante, né Tolstoi, né Mann come li conosciamo noi.
Ma. Ma un libro ha bisogno – forse non sempre, ma certo non poche volte – di scritture
e riscritture, di tagli e rimpolpamenti, di revisioni e ancora revisioni. Ecco:
molti romanzi che ho letto in questi anni, pubblicati da piccole case editrici
calabresi, a me hanno dato la sensazione di potenzialità gettate alle ortiche.
Perché,
anche se si riuscisse a fare miracoli di distribuzione, i suddetti non
reggerebbero al passaparola: sono decisamente troppo lunghi, limitati da quell’urgenza
del comunicare qualcosa (una convinzione, una scoperta) che fa l’effetto irrisolto
dell’acqua e zucchero, o dell’acqua e sale, se quest’ultimo è rimasto sul fondo
della tazza in cristalli non sciolti; con una sproporzione più o meno vistosa
tra le parti; ecc. ecc. Sembrano soggetti bellissimi, ma che andrebbero
asciugati, equilibrati, rivisitati. In una parola: riscritti. Più d’una volta
(se necessario)
Ed
è un vero peccato. Più d’una volta mi sono trovata di fronte a storie – l’ho
già detto – che riscritte avrebbero (avuto) una ben più ampia dignità. Che
tutto questo non sia (stato) fatto è, probabilmente, un problema di soldi: chi
paga gli editor? Ma ho un dubbio in più: che, almeno talvolta, almeno in alcuni
casi, non sia solo un problema di mancanza di soldi, ma ci sia anche un surplus
di provincialismo. Come se non si credesse davvero che quella storia, quel
romanzo, può davvero ambire a diventare uno dei (pochi) romanzi acquistati
dagli italiani.
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