martedì 16 ottobre 2012

La notte di Reggio Calabria

 
 
Qualche navitta, tanto levigata che il legno sembra, al tatto, di burro. Qualche fuso ben tornito, qualche pettinessa, una o due belle conocchie (chissà perché hanno lo stesso nome delle cunocchie dei fichi). E’ tutto quello che, nella mia famiglia, si è salvato del grande telaio, ‘u tularu, dove, non più tardi delle tre del mattino, nello stanzone grande, sotto ‘u lastricu – lo stesso dove si faceva il pane e ad una parete erano addossate le grandi giare dell’olio e, all’altra, c’era una tela dipinta con una Madonna – si sedeva la mia bisnonna. Per ore e ore, i suoi piedi s’alzavano e si abbassavano armoniosi, ritmando il lento procedere dei teli di cotone, di lino o di seta. I figli più piccoli lavoravano le bertole. Quello che poi sarebbe diventato mio nonno, prima di avviarsi in campagna col padre, incannava le dodici cannelle del cusuferro, aiutato dalla sorella più grande; alla più piccola, la più simile alla madre, venivano affidati i lavori di fino. Diventate grandicelle, a entrambe sarebbe magari capitato che un contadino le chiedesse in moglie omaggiandole di un fuso lungamente cesellato dalle sue stesse mani: Beddha ca vi la fici la cunocchia,/è janca e russa comu siti vui/e ‘ntornu ‘ntornu vi la ricamai/ddha intra misi li beddhizzi toi.
 
Agli inizi degli anni settanta – travolto il paese, ben oltre il Paese, da una mutazione antropologica, iniziata lentamente nel secondo dopoguerra e poi quasi improvvisamente esplosa in forme di autodistruzione del proprio passato e della stessa struttura geofisica del territorio – il telaio venne fatto a pezzi e usato come legna da ardere.
 
In quello stesso periodo vennero gettate nella spazzatura le pezzane e la macina di pietra, che per secoli aveva frantumato grano e legumi per la famiglia, fu usata per le fondamenta di una casa nuova.
La grande cultura degli avi, inconsapevole di sé, venne dispersa, in nome di una maggiore facilità di vita, che non si è mai trasformata in nuova ricchezza, dagli stessi che avrebbero dovuto orgogliosamente difenderla.
 
La colata di cemento – che sulla spiaggia fece rapidamente sparire canneti, brucare e sabbia e, sul bagnasciuga, vide apparire una schiera di villini – incrinò per sempre un’armonia paesaggistica secolare, diventando nel tempo, con la connivenza di tanti, un’erta montagna di volgarità morale e di illegalità diffusa.
 
Siamo, ora, ai gironi finali (l’ultimo sarà la dichiarazione del dissesto?) di un inferno costruito sull’incapacità di sostituire, alla fine di una civiltà contadina fatta di stenti e miseria, ma anche di cultura (fatta, insieme, di coltivazione dei campi e di sapienza esistenziale che non aveva niente da invidiare ai sapientoni dei libri), di onestà e forza morale, una civiltà più elevata e giusta per diffusione d’istruzione, economia produttiva, maggiori e più ugualitarie possibilità per tutti. Un lunghissimo vuoto in cui l’economia non è mai decollata in alcun settore e la politica, salvo eccezioni che stanno nella memoria di tutti, non ha innestato il cambiamento, l’ingresso nella migliore modernità socio-economica europea (ormai ragionare in una dimensione meno che continentale è restare in ambito provinciale) ma si è degradata al mantenimento del proprio potere, patteggiando con un’ampia parte della cosiddetta società civile una miriade di microinteressi di persone e di gruppi.
 
Arrivati al fondo, si hanno sempre due sole scelte. O, che è la cosa più facile, ci si lascia inghiottire dal baratro o si fa lo sforzo per risalire. O si muore, insomma o, attraversando la fatica necessaria, si rinasce.
 
Tertium non datur, neppure per la Reggio post scioglimento del Comune.

Foto tratta dalle illustrazioni del Museo di Etnologia e delle Tradizioni Popolari di Palmi
 
 
 
 
 
Su Zoomsud è stato anche pubblicato Umberto Eco e la "sua" Milano "sturm und 'ndrangheta" http://www.zoomsud.it/commenti/41134-umberto-eco-e-la-qsuaq-milano-qsturm-und-ndranghetaq.html
 
 
“Di quel che accadeva al Sud si sapeva poco e si guardava a Roma come a una sentina di vizi… (…) Era Milano centro di cultura, sede delle grandi case editrici, ombelico del mondo produttivo. Era una città bianca che non prendeva ordini neppure dal Vaticano e faceva il carnevale in una data tutta ma poteva mandare al governo della città i socialisti storici. (…) Milano che non voleva prendere ordini da Roma ladrona e disprezzava il meridione, si è ridotta a prendere ordini dal peggio del profondo Sud”.
 
Parole di Umberto Eco in un lungo racconto che si apre sulla prima pagina di Repubblica di oggi (13 ottobre) con il titolo “Questa mia povera città, sturm und ‘ndrangheta”.
 
Lascio ad altri, più preparati di me, le analisi su chi ha “inquinato” chi, su chi ha “dato” e chi ha “preso” ordini, se è il bossetto di turno che ha messo in riga le forze produttive milanesi o le forze produttive del nord hanno utilizzato i capetti della criminalità organizzata “meridionale” nella sua triplice declinazione (mafia, camorra, ‘ndrangheta).
 
Sommessamente – so bene che alcuni dei miei amici diranno che, in fondo, non è che moralismo da veterocattolicesimo – vorrei dire: e se gli italiani, da Nord a Sud, da Est ad Ovest e viceversa facessero un serio esame di coscienza sulla loro singola morale (come lavoravano; come usano beni pubblici; come si rapportano a chi intende coinvolgerli in azioni che sono buone solo alle loro tasche ecc. ecc.)?.
 
Ci sono scelte che stanno sulle teste di tutti i singoli e drammi che ho ben presente a partire da quello di chi, non avendo lavoro, è facilmente ricattabile per mettere insieme il pranzo con la cena. Ma, se trovassimo il coraggio di ripartire dall’etica (“non fare agli altri quello che non vuoi fatto a te”, forse basterebbe) non sarebbe, per tutti meglio?
 
“Che ci è successo?” si chiedeva in lacrime Amalia in “Napoli milionaria”, quando la vita le ha rinfacciato il suo stesso degradarsi morale. Il grande Eduardo le rispondeva concludendo “Addà passà ‘a nuttata”.
 
Ma la notte non passa da sola. Ha bisogno che in tanti facciano un po’ di luce.

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