martedì 19 giugno 2012

Calabria: l'estate in dispensa


Bisogna scegliere quelli meno succosi, i San Marzano sono perfetti, tagliarli a metà di lungo, togliere i semi, salarli abbondantemente all’interno e disporli senza accavallarli sulle sporte o, molto meglio sulle cannizze, gli antichi rettangoli di canne intrecciate.
E spostarli più volte durante la giornata, seguendo il sole che si affaccia al mattino da dietro le colline aspromontane e, al tramonto, si nasconde dietro le montagne siciliane. E, di notte, metterli dentro casa o per lo meno al coperto perché ‘u sirinu, la rugiada, li ammollerebbe. E, una volta secchi, immergerli per una frazione di secondo in acqua messa a bollire con un dito di aceto e poi di nuovo ad asciugare, all’ombra, per poco tempo in maniera che rimangano morbidi. E poi, si ‘inchiappano: le due metà del pomodoro vengono riunite, pressandole bene, mettendoci dentro aglio e peperoncino rosso brucente, piccante, tagliati a pezzettini più o meno grandi, basilico spezzettato a mano e capperi. Infine, si passa all’imbottigliamento in vasi di vetro, alternando strati di pomodori con foglie di basilico, agli, peperoncini tutti interi e capperi. E molto olio. Dopo qualche ora, quando una parte dell’olio è stata assorbita, aggiungerne ancora. Chiudere il tappo e conservare. Per almeno due anni sono perfetti per antipasto, per contorno, col pane e anche mescolati ad uno spaghetto fumante, o in frittelle: immessi in una pastella non troppo liquida fatta sbattendo con energia per una ventina di minuti acqua e farina, una rapida mescolata e, infine, a cucchiate nell’olio fumante. Le frittelle di pomodori secchi sono ricetta d’inverno e per stomaci forti; versione più leggera e fresca, qualcosa che si scioglie in bocca col gusto stesso dell’estate, è quella di seguire lo stesso procedimento con i pezzetti di pomodoro fresco, bello sodo possibilmente del genere tondo, naturalmente privato dei semi.

L’estate reggina è un tripudio di colori. Gialli. Arancioni. Verdi. Viola. Azzurri. In gamme e intensità, nelle ore di maggior luce, da abbacinare. Su tutti, una scia di rosso, che attraversa le stradine, fa capolino dai balconi e dalle terrazze, entra nelle narici ad ogni curva: pomodori che seccano al sole; pomodori tagliati o passati per “fare le bottiglie”, salse che si asciugano sul fuoco, insalate profumate di basilico, origano e cipolle tropeane. Chissà come avremo fatto prima dell’arrivo, da noi, di questo ortaggio.
Fermare l’estate nelle proprie dispense è stata per decenni l’attività primaria delle massaie calabresi.

La giardiniera, per esempio. Si mettevano sotto sale le melanzane tagliate a filetti, pressate da un peso o e poi, settimana dopo settimana, si aggiungeva ciò che l’orto produceva: peperoni privati dei semi; pomodori completamente acerbi, fagiolini, agli, cipolle, cime di cavolfiore e anche olive schiacciate e tutto quello che la terra e il gusto suggerivano. Quando tutto era stato sufficientemente macerato dal sale – ci voleva più di un mese – si sciacquava prima con acqua semplice e poi con acqua e aceto, si strizzava a mano o meglio al torchio, si metteva sotto vetro, un filo d’olio alla base del barattolo e un filo all’orlo. Quindici giorni d’attesa e nel bel mezzo dell’autunno si poteva cominciare a riassaggiare l’estate.
O i fichi, messi a seccare sulle sporte: interi, per ‘i fica cuzzula o tagliati a metà, per 'i cunocchi. I primi infornati, poi rapidamente immersi nell’acqua bollente, rimessi al sole per qualche ora e disposti in un sacchetto di tela bianco girato e voltato tutti i giorni finché una patina bianca, come una farina leggera, ne ricopriva la superficie. I secondi riempiti con mandorle e bucce di mandarini ancora verdi e poi messi al forno e infilati in una stecca di bambù curvata in forma di una u molto allungata.

Usi che sono via via diminuiti fino a rimanere quasi residuali: un po’ per il massiccio abbandono dei campi, un po’ perché i prodotti in commercio sono sembrati più comodi e più economici, un po’ perché gli stessi gusti alimentari sono cambiati e certi cibi sono diventati “troppo pesanti” per il metabolismo di persone che lavorano troppe ore sedute o, comunque, meno desiderabili di quelli proposti dagli spot pubblicitari.
Da qualche tempo, però, – sarà la crisi economica, la nuova tendenza a prodotti “naturali”, la consapevolezza che il libero dedicarsi a domestiche attività non equivale a rinchiudersi nella “casalinghitudine” – sta tornando, anche da noi, il gusto delle marmellate, dei liquori, delle conserve fatte in casa. E così un gruppo che si chiama Amo la cucina calabrese, fondato da Rina Scalise, ha, in breve, superato i 2600 amici su Fb. Sparsi un po’ in tutto il mondo e attivissimi nel proporre le ricette delle nonne e delle zie. Entusiasti nel mostrare le foto dei loro piatti, ma anche di ritrovare, con gli antichi sapori, anche i termini dialettali dei cibi e degli utensili da cucina. E lo stesso accade in altre pagine web che, pur non essendo dedicate direttamente ai cibi calabresi, a questi tornano spesso con interesse.
Come se, anche nel nostro confuso e complicato presente, il conforto dell’identità, rimasta o ritrovata, grande o piccola che sia, abbia una via privilegiata nell’antica sapienza del “parla come mangi”.

Pubblicato su Zoomsud:


La foto è tratta dalla pagina fb di Amo la cucina calabrese

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