sabato 16 giugno 2012

La casa del ritorno


In un primo pomeriggio di giugno, Lidia scese dalla littorina su cui, da Reggio, aveva proseguito un viaggio iniziato, in mattinata, su un eurostar di spossante lentezza e si fermò un attimo come stordita nella piazza della stazione jonica, prima di incamminarsi, per quanto incerta, verso sinistra.

C’erano costruzioni nuove, anche la discesa verso il mare non era quella di un tempo, ma non le fu difficile ritrovare il piccolo albergo di cui ricordava i balconcini per ogni stanza, tante cupolette affacciate sulle onde. Salì nella camera che aveva prenotato, solo il tempo di posare il piccolo trolley, e riscese.

Avevano fatto lavori anche sul lungomare e grossi massi erano stati posti nell’acqua per fermare l’erosione della costa. Il sole cominciava a declinare e l’aria era pregna di odori conosciuti. Si accorse che il suo sguardo si faceva via via più selettivo. Non vedeva i canali di scolo che continuavano a scendere verso l’acqua di apparente, totale, limpidezza né le costruzioni sul mare che l’egoismo di alcuni e l’insipienza e la complicità di altri avevano consentito e neppure gli scheletri di mura che frastagliavano l’ondulata dolcezza delle colline. Non aveva occhi e naso e orecchie se non per i riflessi di luce, che giocavano sulle onde e si rifrangevano sui residui di vegetazione sul bagnasciuga e sulla stradina che stava percorrendo: gelsomini, buganvillee, alberi di melograni dai frutti ancora acerbi.

Da decenni, tutte le sue energie, giorno e notte, erano imprigionate in quello spazio, in un ferma-immagine che le aveva gelato la vita. Eppure, ebbe qualche difficoltà ad accorgersi di essere proprio là. E non tanto per i due cubi di cemento – ci voleva coraggio o assoluta mancanza di senso estetico a chiamarle case – disposti agli orli della caletta, uno a destra l’altro a sinistra. Quanto perché il suo corpo e la sua mente ebbero una simultanea riluttanza a entrare nella vertigine in cui, un attimo dopo, si trovarono. Ebbe la sensazione netta di non essere in grado di controllare nulla di se stessa, né reazioni fisiologiche né sconquasso dell’anima.

Trenta anni prima, più o meno a quell’ora di un quieto tramonto di giugno, sua sorella Rina e i suoi amici, da appena qualche giorno in vacanza, stavano preparando un falò sulla spiaggia. In paese, in due occasioni i falò erano un’abitudine. Quelli per la notte di San Giovanni, che si svolgevano lungo i torrenti e cui partecipavano solo ragazzi e quelli di Ferragosto, sul mare, con i ragazzi che trascinavano rami e pezzi di legno e le ragazze che si preoccupavano delle cibarie, con l’immancabile anguria messa a rinfrescare in un piccolo pozzo scavato ad un passo dall’ultima onda. Quel falò era un di più, un capriccio di Annalena, che era riuscita a convincere Giovanni, che le faceva gli occhi dolci da un bel po’ e Giovanni aveva convinto il suo amico Giuseppe e Giuseppe Matteo e Matteo sua sorella Lina e così via. Erano state poche ore allegre, di baldoria complice e innocente, poi s’erano sfrenati in giochi e corse. Rina s’era avvicinata troppo al fuoco, la sua camicetta di cotone bianco con le maniche a palloncino aveva preso fuoco e la vampa s’era avventata sui capelli lunghi e sottili di grano maturo, che le arrivavano all’attaccatura delle gambe. Tonnellate d’acqua erano lì, a disposizione, ma rimasero inutili, a mormorare leggere mentre la luna riluceva tranquilla.

La morte di sua sorella aveva trascinato con sé, nel giro dei successivi cinque anni, anche il padre e la madre. Lidia, che si trovava a studiare medicina in una città del Nord, aveva lasciato l’università e s’era trovata un lavoro in un laboratorio di pasticceria. Aveva sempre amato fare i dolci, unendo tradizione e novità: nell’impastare, decorare, infornare, si estraniava da ogni cosa trovando in sé un nucleo solido e impassibile. La proprietaria del laboratorio – una vedova dal carattere energico ed entusiasta, i cui figli avevano impieghi pubblici in altre città – sapeva che c’era molto dolore dietro le dolcezze che avevano dato lustro alla sua bottega e ascoltava con affettuoso rispetto i lunghi silenzi della sua pasticcera.
Lidia non era più tornata al suo paese, finché, ricevuta una ricca proposta di vendita della sua vecchia casa, s’era risoluta ad affrontare quel viaggio penoso. Sperava di ottenere sufficiente denaro non solo per rilevare il laboratorio ma anche per completare il pagamento del mutuo della piccola abitazione che aveva acquistato a pochi isolati dalla sua attività lavorativa. La consolava pensare di poter fissare così, tra “casa e bottega” gli anni che le restavano.

Immobile davanti a quella caletta – il sole era scomparso dietro l’azzurro profilo siciliano – Lidia si avvertì gelata e brucente. Sfatta in ogni angolo di se stessa, non continuò a camminare verso la casa che stava poco lontano, subito dopo il ponte, ma tornò indietro verso il suo alberghetto. Si costrinse a mangiare qualcosa, ma non riuscì ad andare oltre un caffelatte con dei biscotti. Fece una doccia e si fermò in piedi, dietro la finestra a guardare il mare.

Le scarse luci della strada non riuscivano a illuminare il buio sempre più fitto. Il rumore delle onde la inquietava e la placava nello stesso tempo. Riuscì a mettersi sul letto solo alle prime luci dell’alba, quando, sebbene non ci avesse proprio pensato, aveva ormai preso la decisione di non venderla, quella casa. Dove qualcosa o qualcuno la stava riconducendo.


 

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