Al
referendum del 1981, mi parve che la legge 194 andasse mantenuta perché poteva
contribuire a rendere l’aborto un fenomeno residuale e favorire, grazie alla
piena applicazione della prima parte del provvedimento, una maternità più
consapevole.
Oggi
non mi sento di schierarmi tra i difensori (per le amiche che esigono il
passaggio al femminile di tutti i termini, qual è quello di difensori?) della
norma che chiamano alle armi per la battaglia
di libertà di contro alle richieste, talora tanto più fastidiose quanto più
subdole, di revisione, da cui mi tengo ugualmente lontana.
E’
molto triste che, dopo più di trenta anni, di aborto si continui a parlare come
di un diritto e non, più sensatamente,
di un dramma: dramma che la coscienza
individuale può considerare, più o meno giustamente, inevitabile, ma che resta, appunto, dramma.
Ho
più di un dubbio sul fatto che l’aborto interpretato come diritto civile sia un
fattore di libertà delle donne e non piuttosto di debolezza: segno di una
deresponsabilizzazione delle donne e, ancora più, degli uomini.
Mi
chiedo, anzi, talora, se lo stesso uso massiccio del termine contraccezione non abbia in questi anni
fatto male alle donne (e, di conseguenza, agli uomini e alla società nel suo
complesso). Non mi riferisco alla realtà/necessità/scelta del controllo delle nascite (elemento, tra l’altro,
che ridurrebbe l’aborto che – contro lettera e spirito della 194 – si configura
anche come sistema di contraccezione a posteriori e selezione genetica dei
nascituri), ma proprio al termine che dà valenza negativa alla concezione. Ovvero a qualcosa che, se
non esaurisce, certo è nella natura dell’essere donna, anzi nella realtà stessa
della vita. Che andrebbe non attaccata, ma difesa
e valorizzata.
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