La
scoperta dell’acqua calda non finisce mai. E, così, nei giorni scorsi, i giornali
hanno messo in evidenza uno studio della Tohoku University di Sendai, una delle
città giapponesi più colpite dal terribile sisma nel marzo del 2011, pubblicato
da Molecular Psychiatry e citato da Wired secondo cui – chi l’avrebbe mai
detto?!? – i terremoti hanno conseguenze sul nostro cervello. Provano, infatti,
cedimenti strutturali della corteccia celebrale.
Vissuta
in un paese dove, a cinquanta anni di distanza, nonni e zii parlavano del
terremoto del 1908 come di un’esperienza attuale,
ho poi sperimentato, il 23 novembre dell’80, i grandi lampadari del teatro
San Carlo di Napoli che oscillavano in un vortice da fine del mondo. E mi sono
più volte chiesta quanto la ciclica precarietà della terra meridionale abbia
inciso nella sua debole articolazione economica e sociale, nel suo vivere alla
giornata, nel suo cercare in piccolissime consolazioni (certi dolci divini, per
esempio) conforto all’assenza di sicurezze e prospettive.
Ma
il Nord. Il Nord restava sicuro,
ancorato ad una stabilità del suo territorio, dove qualche terremoto, anche
grave – come potrei non ricordare il dramma del Friuli del 1976? – non era che
un caso, una parentesi.
Ora
che non è più così, non è il momento (magari l’ultimo possibile) di fare della
comune ansia la leva per mettere in sicurezza, per quello che essendo
umanamente possibile ci compete, un comune territorio bellissimo e
fragilissimo?
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