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Quando ho iniziato a insegnare, la valutazione veniva espressa in giudizi. La cosa ci consentì per anni – non solo in piena coscienza, ma anche nel rispetto delle norme – di promuovere ragazzi con una preparazione oggettivamente insufficiente, che soggettivamente avevano fatti passi avanti buoni e qualche volta encomiabili nel ridurre le loro gravissime carenze cognitive di base.
Quando si passò ai voti, col criterio di una valutazione oggettiva, andai dal preside, Francesco Di Vaio – che ben conosceva la nostra realtà – e gli dissi che, se dovevamo dare rigorosamente sei a chi meritava oggettivamente sei, sette a chi meritava oggettivamente sette e così via, avremmo dovuto ridurre il numero degli esaminandi di parecchio. Di Vaio rispose che avrebbe posto un quesito al Ministero. E pure il Ministero rispose. Non ricordo le parole precise e mi dispiace di non avere il relativo foglietto di carta firmato da non so chi, ma il concetto era chiaramente questo: che il numero era relativo al percorso fatto dall’allievo.
Ne traemmo la conclusione che, quindi, come nel passato, chi valeva oggettivamente quattro ma partiva da meno 1 era meritevole di un sette e magari di più per gratificarlo rispetto a chi avrebbe avuto un sei, avendo raggiunto lo stesso quattro ma partendo da due.
Un modo di procedere ambiguo: giusto rispetto allo sforzo fatto dal singolo ragazzo, ingiusto rispetto all’oggettività che un numero dovrebbe esprimere. Fondamentalmente debole.
Ci ho ripensato in questi giorni, chissà perché, leggendo come si era cercato di scrivere il Recovery Plan. Siamo un paese che ha grossi problemi con la matematica e con la stessa lingua italiana. C’è un dovere della classe dirigente di essere all’altezza delle sfide dell’oggi. Ma imparare, autoformarsi continuamente sono anche dovere, oltreché diritto, di ciascuno.
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