Ho ripreso, ieri, su fb, un articolo di Massimo Recalcati, No alla generazione Covid, pubblicato lo stesso giorno da Repubblica, commentandolo con “condivido anche le virgole”. Gennaro Pagano – che stimo molto: non “si occupa” ma “vive insieme a loro” la condizione di tanti ragazzini in grandi difficoltà – ha commentato il mio commento rilevando che il discorso di Recalcati è “semplicistico”, in quanto riferibile a ragazzi, caso mai, del ceto medio ma non a quelli che, in altri tempi si sarebbero definiti (la definizione è mia) del “sottoproletariato”.
Rimando ad altro momento un discorso “filosofico” sulla “necessaria parzialità” e/o sulla possibile o meno “universalità” del pensiero di ciascuno (chi è davvero in grado di esprimere, compiutamente, con le proprie parole, nello spazio di una pagina, il cuore - qui, nel senso di “centro pensante e sentiente” - della casalinga e dell’ingegnere nucleare, del ragazzo di strada e della monaca di clausura?)
E torno a Recalcati. E ai ragazzi di Nisida e dintorni che Gennaro Pagano conosce molto bene.
Un ritornello che tantissimi di loro, quasi tutti, mi hanno ripetuto decine e decine di volte è: Io so’ sfortunato. (Lo stesso di Nennillo in Natale a casa Cupiello). Esclusi alcuni casi (pochi), chi avrebbe potuto dargli torto? Famiglia, quartiere, eventi: tutto contro di loro. Ho provato più di una volta un senso di fisica lacerazione alle loro vicende, ma non glielo mai data vinta sul fatta che erano sfortunati, e, quindi, destinati a perdere. Ho provato a fargli acquisire strumenti per una visione diversa di se stessi: 1.Partivano svantaggiati, magari molto svantaggiati, avevano accumulato molti problemi, magari moltissimi. 2.Quindi, dovevano tirare fuori più forza, più energia di tanti che partivano da condizioni più facili. 3.Ma la partita se la dovevano giocare puntando a vincere.
Non sono una grande sportiva. Ma penso che ci siano poche situazioni così adrenaliniche come una partita di calcio che la tua squadra perde a 15 minuti dalla fine 2 a 0 e conclude vincendo 3 a 2 o un match di tennis, dove la tua beniamina ha perso il primo set e, nel secondo, sta al secondo matchpoint per l’avversaria, lo annulla, annulla il terzo, vince il set e, poi, vince il terzo set e, quindi, la partita.
Chi può negare che stiamo vivendo un momento drammatico della storia? Che solo chi ha vissuto la tragedia della seconda guerra mondiale ha provato difficoltà non identiche (che quelle erano peggiori) ma, in qualche modo, assimilabili?
Ma la prima risposta è non piangerci addosso: hic Rodhus hic salta. Vale, prima di
tutto, per gli educatori (a qualsiasi titolo) che hanno l’obbligo di cercare le
strade possibili e migliori nelle circostanze date. Il covid è già un problema enorme in sé: non facciamone un alibi.
Ps. Faccio parte della generazione di reggini che nell’anno scolastico 1970-1971 ha saltato parecchi mesi di scuola per i Moti del Boia chi molla. Ero al terzo liceo classico. Nessuno ci compianse. Quando tornammo in classe facemmo gli straordinari e siamo arrivati agli esami col programma concluso (e bene). Ieri erano quarant’anni dalla tragedia del terremoto dell’Irpinia. Anche in quel caso, mesi di scuola saltata. Poi, i ragazzi sono tornati e hanno ricominciato. E, allora, non c’era forma alcuna di didattica a distanza o di didattica digitale. Erano, è vero, ma non è il momento di approfondire, anche altri tempi. A questa generazione di giovani sta toccando questa prova. Vanno sostenuti ad affrontarla, non sospinti a lamentarsi del destino cinico e baro.
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