martedì 3 novembre 2020

Avevo meno di venti anni e amavo Pasolini

 

Immagine dal Web

Ieri, tra le mie carte, ho ritrovato – e non pensavo di averli più – gli appunti della tesina su Pier Paolo Pasolini che presentai agli esami di maturità, luglio 1971, liceo classico Tommaso Campanella di Reggio Calabria. Un anno scolastico particolare, di cui un terzo “saltato” per via dei moti del Boia chi molla. Appunti a mano, naturalmente, con le prime pagine scritte in grafia minutissima e il resto in grafia più rotonda, chissà perché. Oggi, scriverei in maniera un po’ diversa. Ma l’emozione del ritrovamento (anche se gli appunti non sonotutti) è stata forte. Qui la riprendo, parzialmente, ma come è stata scritta allora.

Parte Prima

L’uomo

Pier Paolo Pasolini è uno degli intellettuali più rappresentativi degli ultimi venti anni. Nato a Bologna nel 1922, egli ha passato la giovinezza in varie zone del Veneto e dell’Emilia Romagna finché, dopo un lungo soggiorno nel paese materno, Casarsa, si è stabilito nel ’49 a Roma, iniziando la sua attività di scrittore, di saggista, di sceneggiatore e più tardi di regista, attività, quest’ultima, cui quasi esclusivamente si sta dedicando in quest’ultimo periodo.

Nel suo estremo bisogno di portare al limite ogni esperienza, egli ha partecipato – e continua a farlo, spesso precorrendo i tempi – all’intero arco di cultura e di vita della sua generazione, dalla fede nel marxismo e dall’entusiasmo del dopoguerra quando la rivoluzione poteva essere una realtà, alla crisi ideologica degli anni cinquanta, al recupero di una nuova sensibilità religiosa, e alla continuazione della lotta nonostante tutto.

La sua lotta di intellettuale marxista, che ha sempre teso a favorire una nuova impostazione della vita, a preparare la nuova cultura per la nuova società, si è diretta – e si dirige – contro la borghesia, sempre più ambigua, avvolgente e imperante, con l’intento di dissacrare, di portare scandalo, di confondere gli ipocriti, di non perdere l’autentico senso religioso dell’esistenza. Nessuno come lui – dice Gramigna – è stato «così disperatamente mobile, così pronto a giocarsi tutto per tutto su ogni nuova occasione ideologica e letteraria, in largo senso culturale», nessuno come lui si è impegnato così fino allo spasimo, ricominciando la lotta di sempre giorno dopo giorno, attimo dopo attimo e in forme tanto varie, i romanzi, le poesie, i saggi, il cinema. A caratterizzare le sue opere letterarie c’è la splendida capacità di bruciare, esaltandole, le sue contraddizioni più apparenti che reali, la capacità di passare dall’elegia accorata al feroce sarcasmo componendo la nota romantico-dionisiaca, quella crepuscolare, quella civile nella singolare compattezza della sua scrittura.

I romanzi

Il suo primo romanzo è Il sogno di una cosa, scritto tra il ’49 e il ’50, ma rivisto nel ’62, al cui riguardo Carlo Bo sottolinea che «più che per qualsiasi altro nostro scrittore, per Pasolini conta il tono, l’inflessione del cuore poetico, insomma il modo di vedere le cose. E da questo punto di vista occorre die subito che qui c’è già tutto Pasolini con le sue predilezioni sentimentali, con i suoi scatti e i suoi abbandoni.» il libro descrive – con un tono definito da Sapegno «neorealismo elegiaco» –  l’adolescenza di alcuni contadini friulani, la loro miseria aperta alla speranza di una società diversa, le loro vicende che sembrano già proiettarsi verso l’impegno che porterà lo scrittore nelle borgate romane, tra le spettrali figure di un’umanità chiusa nell’abiezione della miseria, ma da lui ricondotta ai nobili sensi che la riscattano, nei due romanzi successivi, Ragazzi di vita e Una vita violenta.

Ragazzi di vita, pubblicato nel ’55, è la biografia di alcuni ragazzi della malavita romana, dall’infanzia alla prima adolescenza. L’ambiente vero, le borgate romane che fasciano la capitale con i loro lotti, coi loro villaggi di tuguri, i personaggi veri, quasi da documento sociale, le situazioni vere fino a sembrare tolte dalla cronaca romana non limitano il romanzo ad un prodotto del neorealismo. C’è troppa violenza, infatti, perché si possa parlare di neorealismo. L’autore, nel creare questo genere di racconto, ha avuto piuttosto davanti a sé dei modelli più autentici e assoluti, dalla novellistica antica italiana al romanzo picaresco. Nonostante l’abilità e la complessità dello stile, non c’è aria di letteratura nel libro: l’estrema attualità del documento è troppo determinante e implica una passione e una pietà ben altro che letterarie. Inoltre il romanzo è scritto in chiave d’avventura, proprio com’è la vita nelle borgate romane. Così, a metà strada tra il documento di denuncia e il canto della vitalità estrema della nuda realtà, Ragazzi di vita si presenta come un libro sperimentale.

A quattro anni di distanza, nel ’59, lo scrittore pubblica Una vita violenta, «uno dei libri più importanti degli ultimi anni» secondo Carlo Bo, in cui l’autore scopre la vita delle borgate romane con un’evidenza allucinante, attraverso un parlato, dice De Robertis, «fitto, complesso, arioso, mutante, che ogni tratto ne è come inebriato», ovvero attraverso il gergo romanesco, che è sì, come dice Gadda «lo strumento adibito da Pasolini a una rappresentazione esatta e veridica, cioè lucida e spietata, delle persone e degli atti, dell’ambiente e della fatalità», ma non si esaurisce in semplice mezzo stilistico, ma diventa fine. Più ancora che in Ragazzi di vita, l’uso del dialetto acquista infatti un rilevante valore politico e sociale. La storia – aspra e tesa – di Tommasino diventa una condanna che investe frontalmente la società borgese. La letteratura si fa azione, rimanendo arte. «Mai – dice Citati – Pasolini aveva raggiunto una così atroce evidenza nel registrare ogni minimo movimento della grande vegetazione umana».

Segue, nel’65, Alì dagli occhi azzurri, una raccolta di racconti e di sceneggiature di film che testimonia di un lungo travaglio ideologico. Prima, negli anni cinquanta, l’impegno entusiasta, l’accesa speranza di un cambiamento radicale vicino; poi, negli anni sessanta, il rimpianto che si trasforma ancora e nonostante tutto in nuovo impegno. Nella prima parte del libro i protagonisti sono ancora i ragazzi delle borgate romane, poi la prospettiva diventa più ampia e comincia a mancare il dialetto. Ormai, infatti, l’uso del dialetto come linguaggio preborghese contrapposto all’italiano colto dei reazionari è stato superato dall’affermazione dello strato tecnico-scientifico della coinè neo-capitalistica e, quanto ai temi, l’autore passa dalla scelta del realismo ad una sorta di sogno dell’oggettività.

Lasciato il sottoproletariato romano, egli scopre la disperazione intrinseca dell’alta borghesia milanese in Teorema, del ’68, il suo romanzo più complesso che «congloba – dice Vigorelli – le sue esperienze di poeta, di narratore, di regista, di saggista, di uomo di idee». Qui l’interesse, da sociale e politico, si fa preminentemente religioso. «La metafisica – dice P. Bianchi – viene costretta a scendere sulla terra in un discorso che oppone il dolore di essere, l’angoscia del singolo allo scorrere del tempo. La razionalità del reale viene abbandonata a favore di una sommessa professione di fede nelle apparizioni misteriche.» Dal libro, che Attilio Bertolucci definisce «conte philosophique: dimostrativo e stringato e non privo di un leggero senso dell’umorismo, come il genere comporta; a tratti lirico, in maniera straziante, come la natura dell’autore, all’origine e sempre poeta lirico, vuole», si ricava il messaggio profetico e positivo di Paolini: quel messaggio che rende Teorema, secondo l’espressione di G. Vigorelli, «germinale».

Le poesie

Pasolini ha esordito alla poesia, pubblicando nel ’42, Poesie a Casarsa, alcune liriche in dialetto friulano, che risentono dei modi della poesia provenzale, mentre intanto scriveva versi in italiano, di matrice letteraria e post-ermetica. La trasformazione e la fusione di questi due filoni poetici della sua prima giovinezza, l’anti-italiano in falsetto delle Poesie a Casarsa e de La Meglio Gioventù e l’italiano eletto de L’Usignolo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel ’58, avviene sotto il segno di un marxismo mai ortodosso. Lasciato il Friuli romanzo con i suoi gelsi e le sue viti, egli arriva lentamente, nelle borgate romane, al poema civile, ovvero a Le Ceneri di Gramsci (’57), ispirate dalla morte del fratello partigiano, a La Religione del mio tempo (’61), «il più ispirato e razionale canzoniere civile dell’Italia odierna», secondo G. Vigorelli, a Poesia di forma di rosa (’64), una sorta di diario poetico dei suoi viaggi, dei suoi film, dei processi subiti.

La poesia di Pasolini vuol essere conoscenza nuova del mondo. Essa investe, oltre a problemi strettamente stilistici, che sono quelli della tradizione classica e contemporanea, problemi di ordine spirituale propri del nostro tempo ed è un angosciato atto d’amore per l’uomo, per la sua condizione grottesca, per le sue opere povere e umiliate, per le sue miserie, di cui egli fa, nelle sue pagine, una religione altissima e disperata. La sua poesia nasce da un’ispirazione vasta e profonda: non è la poesia di un momento o di un particolare sentimento, non è la poesia del già poetico: tutta la vita, nelle sue mani, si trasforma in poesia sì che quest’ultima risulta vissuta tra «passione e ideologia». Le lotte ideologiche, l’impegno politico e sociale, i dolori privati diventano non motivo di poesia ma poesia essi stessi perché visti in una prospettiva assoluta, religiosa e quindi poetica.

Ne viene fuori l’immagine di un uomo che non si accontenta mai delle posizioni raggiunte e cerca sempre la verità con un impegno che, nascendo di volta in volta, dalla speranza o dalla disperazione, è comunque totale. Egli – e ne è pienamente cosciente – appartiene «alla razza che non accetta gli alibi/alla razza che nell’attimo in cui ride/ si ricorda del pianto, e nel pianto del riso/alla razza che non si esime un giorno, un’ora/ dal dovere della presenza invasata/della contraddizione in cui la vita non concede/adempimento alcuno, alla razza che fa/ della propria mitezza un’arma che non perdona». (da Poesia in forma di rosa)

In un’analisi critica del corpus delle poesie scritte tra il ’51 e il ’64, Pasolini scrive: «Ciò che in esse mi colpisce – come se me ne fossi estraniato, ma non è vero – è un diffuso senso di scoraggiante infelicità: un’infelicità facente parte della lingua stessa, come un suo dato riducibile in quantità e quasi in fisicità. Questo senso (quasi un diritto) di essere infelice è talmente predominante che la stessa felicità sensuale ne è come offuscata, e così l’idealismo civile. Ciò che mi colpisce ancora, rileggendo questi versi, è rendermi conto di quanto fosse ingenua l’espansività con cui li scrivevo: proprio come se scrivessi per chi non potesse che volermi un gran bene. Adesso capisco perché sono stato tanto sospetto e odiato».

I saggi

«Pasolini – dice Attilio Bertolucci – è anche, seppure quasi in disarmo perché occupato in lavori diversi, il miglior critico della sua generazione», quello che, alla cultura, all’acutezza intellettuale, alla grande sensibilità, unisce un amore sempre vivo e sempre nuovo per i problemi artistici e letterari. «Perciò nessuno come lui – sostiene Vigorelli – passionalmente ma criticamente è sempre pronto ad un discorso da lontano antico ma tempestivo, odierno ma mai sradicato, e soprattutto è il solo ad essere capace di scatenare e sostenere il discorso perpetuo, anch’esso critico ma non una volta negativo della poesia». Tra le sue opere critiche sono da ricordare due antologie sulle forme dialettali e popolari in poesia, e cioè Poesia dialettale del ‘900 (’52) e Canzoniere italiano (’55) e soprattutto Passione e ideologia (1960), la raccolta dei saggi più impegnati, che contiene il meglio delle sue posizioni anti novecentesche.

La storia della poesia degli ultimi cinquanta anni non è mai vista da Pasolini come una storia a sé – secondo il canone novecentesco – ma come fusa alla storia culturale, sociale e politica del momento. Nell’ambito di questo atteggiamento, volto all’esclusiva conquista di giudizi di valore, si definiscono la passione che restituisce l’anima di una totale partecipazione umana e l’ideologia che ne governa le più impegnate strutture.

Conclusione

Il giudizio più penetrante sulla sua attività culturale finisce così col darlo lui stesso. «La mia opera, almeno nella mia coscienza – egli scrive – si configura, in ultima analisi, come una lotta contro il potere… Attacco la società dei consumi, ma mi servo dei suoi strumenti (cinema, rotocalchi). È contraddittorio, lo so – io sono dentro un sacco di contraddizioni, lo so – però è una contraddizione che val la pena di accettare, pur di lottare, pur di fare qualcosa».

 

Parte Seconda 

Le prime poesie

Le poesie raccolte ne Le ceneri di Gramsci, ne La Religione del mio tempo e in Poesia in forma di rosa, ovvero le sue poesie più mature e più note, non possono essere adeguatamente capite e amate, non si conosce la sua prima poesia. La scoperta di Marx, nel cui segno si svolge la poesia maggiore, infatti, non significa, per Pasolini, la fine di un sentimento religioso preesistente, ché, anzi, questo si va sempre più acutizzando e drammatizzando col passare degli anni. Ed è la sua prima poesia, quelle delle Poesia a Casarsa (’42) e de L’Usignolo della Chiesa Cattolica (‘43-’49), che desidero più approfonditamente analizzare, in quanto essa è stata scritta quando l’autore aveva pressappoco la mia età e, come me, si affacciava alla vita e ai suoi problemi.

Apparentemente le prime poesie di Pasolini sono l’espressione di una crisi adolescenziale vissuta in un ambiente paesano e contadino. Lo sfondo delle ansie e delle angosce esistenziali, legate alla scoperta del sesso, è costituito dalla campagna, i cui silenzi esasperanti sono rotti solo dal suono dalle campane. I coetanei, la madre, il piccolo paese, la chiesa sono gli elementi che compaiono, in un’atmosfera di triste sogno, accanto al poeta, il giovane Narciso, che si consuma d’amore. In quest’ambiente immutato da secoli, la chiesa è viva e presente, anche se solo come suono di campane, come richiamo alla recita del rosario, come giorno di riposo alla domenica che porta speranze pazze e struggenti di un divertimento che deluderà sempre. La solitudine, rotta solo dal rapporto con la madre, è il tema dominante di queste prime poesie.

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In questo mondo, la chiesa cattolica è la tradizione che passa di padre in figlio, ai figli che hanno lo stesso volto dei padri e che sono, come loro, rassegnati a vedersi vivere e morire, ricacciando ogni giorno più indietro la voglia e l’ansia di vivere; mentre Gesù, immagine vivente di sofferenza e di dolore, è quasi compagno giovinetto, cui vanno le invocazioni più accorate e segrete del cuore.

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Il sentimento di fondo di questa prima produzione pasoliniana è la coscienza dell’impotenza della volontà di fronte alla vita. La scoperta del proprio corpo non prelude, per lui, ad un’autoaffermazione ma ad un ripiegamento su se stesso, sul proprio io colpevole che non riesce a comunicare con chi è più simile a lui, ma di lui più puro perché incolpevole, la madre. Perciò il poeta è Narciso, chiuso nel cerchio magico di se stesso.

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Secondo Asor Rosa, questa è «un’immagine di intima malinconia, riflessa in uno specchio nero e profondo». Il motivo dello specchio torna spesso in queste prime poesie. Narciso, infatti, è solo con se stesso e la sua esistenza si svolge in un continuo riflettersi delle stesse sofferenze, da sé a se stesso, nello specchio. In questo colloquio il tempo non esiste più; i morti sono vivi e i vivi sono morti; il passato non differisce in nulla dal presente.

La chiesa è, a Casarsa, punto d’incontro per la recita del rosario e per i riti; centro di raccolta di tutte le paure e di tutte le speranze, di tutte le superstizioni. È l’unica presenza culturale, col suo fascino di sopravvissuto paganesimo e il suo penetrare, violento, in ogni coscienza. Ma la religione vive al di fuori della Chiesa e Cristo sfugge ai sudari in cui lo si vuole imprigionare. Cristo è un giovinetto che continuamente soffre e muore, forza attiva che cerca e vuole vincere l’Anticristo per avere dalla lotta valore e vita, come il suo poeta, il dolce ardente Usignolo della Chiesa Cattolica.

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La memoria di Cristo fa capire al poeta che bisogna rompere il muro di polvere, accogliere il sacrificio col suo messaggio di «rapire il cielo e violarlo» perché esista. Con Cristo, Pasolini vive un rapporto religioso costante, di amore e di identificazione. L’amore per lui e per la madre vergine è identico. Tra loro tre è il vero dialogo, che si svolge in mezzo ai giovani di Casarsa senza che questi ne siano direttamente coinvolti, perché, morti-vivi, sono privi della coscienza del dolore.

Questo mondo è privo della presenza del padre. Il poeta, infatti, scrive negli anni della guerra, mentre le istituzioni sociali e politiche dell’Italia fascista si scardinavano nel sangue. Ed egli, figlio intellettualmente e culturalmente di padroni, appartenente di fatto, all’élite culturale del suo tempo, nel momento che la sua classe vacilla e perde potere, implicato nella guerra e nello sfruttamento come uomo, consapevole della colpe della classe cui appartiene, impossibilitato a pagare e a riscattarsi, viene travolto da un sentimento sconvolgente di colpevolezza.

Il suo mondo si capovolge: non ha scelto di essere colpevole. Non ha condiviso le colpe in prima persona. Ma le ha ereditate dai suoi padri. Egli rifiuta il padre e, attraverso di lui, la cultura di un mondo che odia. All’odio per il padre corrisponde l’amore per la madre, innocente e inconsapevole, per il ruolo storico di donna e madre, schiava. Da lei viene la purificazione dell’innocenza, anche se quell’innocenza era inconsapevole accettazione di un qualunque ruolo storico. Nelle poesie l’amore trasfigura questa innocenza: la madre diventa virgo inviolata, virgo castissima, mater dolorosa.

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Ma, nel suo mondo affettivo, uno della sua gente e della sua classe, paga. Il fratello, Guido, muore, ucciso, nella lotta partigiana, compiendo il sacrificio, il gesto riparatore. Per il poeta quel martirio è il martirio di Cristo. Per questo Cristo è sempre compagno e fratello maggiore, linea di tendenza, amore ossessivo: Cristo che, consapevole, volle pagare per tutta l’umanità, colpevole per scelta, respinto dagli uomini, come il fratello del poeta e il poeta stesso.

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Cristo, la madre, la chiesa, i compagni, non sono altro che proiezioni di questo mondo interiore dilaniato da un contrasto, non ancora chiaro alla coscienza e ricacciato nel più profondo dell’anima. Il superamento dell’impasse avviene per gradi con una presa di coscienza progressiva. Pasolini si avvicina lentamente alla comprensione di se stesso; prima di capire il centro del suo problema, capisce di aver falsato se stesso. E prima di comprendere il perché del suo senso del peccato, e della sua volontà di morte, capisce che per lui la chiesa cattolica è stata la coscienza del peccato e, dal momento che vuole vivere e amare liberamente, la respinge.

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Egli vuole, in definitiva, riconoscersi, senza angoscia, «giovinetto perverso».

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Ma riconoscersi «giovinetto perverso», senza angoscia, voleva dire precipitare in gorgo narcisistico. E, infatti, si ha tutta una serie di poesie in cui Narciso ha come interlocutore il Demonio.

Il superamento del peccato d’origine, cioè della chiusura nel proprio egoismo individualistico, avviene attraverso l’abbandono di sé e la scoperta degli altri.

Il Romancero, tutta la seconda parte de La meglio gioventù, Davide ne L’Usignolo della Chiesa Cattolica sono, appunto, la scoperta dei «poveri», ma, quel che è più importante, poveri e esclusi non per destino, come appariva nelle prime poesie dialettali, ma per ragioni storiche perché «dannati della terra».

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Di fronte ai giovani che consumano nelle officine l’unico bene della loro povera vita, la gioventù, la prima parola che gli nasce spontanea è quella di Cristo. Un Cristo che trasforma la colpa da individuale a universale.

(…) ( e insegnerà ad avere “veri sogni”)

«Veri sogni», non quelli che l’oracolo di Casarsa, dei vecchi e della tradizione offrivano ai ragazzi come unica meta. Compare il «sogno di una cosa» e Cristo diventa un Cristo operaio, un uomo cioè che le sue piccole croci individuali le ha poste acconto a quelli di tutta una classe, e ha voluto esporsi fino in fondo, per la chiarezza del cuore.

(…)

È l’apparizione di un orizzonte le cui categorie sono primariamente politiche, sociologiche e laiche.

(…)
Seguendo l’esempio del fratello morto, Pasolini diventa marxista e comunista. L’Usignolo della Chiesa Cattolica si chiude con la scoperta di Marx; alla madre innocente, il poeta spiega la sua conversione.

(…)

Non è finita la «religione»: è finita una stagione e ne sorge una nuova: quella ancora più sofferta, tormentata e impegnata della maturità.

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