Il protagonista di Ragazzo italiano – il libro di cui ho
parlato nel post precedente – fa parte della classe media acculturata del Nord, ha madre
e nonna insegnanti, in casa ci sono dei libri, crescendo si compra giornalini. Eppure
la scuola è fondante non solo per le conoscenze che acquisisce, ma proprio
nella strutturazione della sua mente, nell’acquisizione di un metodo per
continuare ad imparare.
Bambina dell’estremo Sud,
mamma e nonna con la seconda elementare, io sono andata in prima nel 1958, quando
Ninni frequentava la media. Anche per me la scuola, con tutto il peso della sua
severità e selettività, è stata decisiva. Tuttora, devo tantissimo alle
montagne di analisi logica, alle sconfinate praterie di riassunti, all’oceano
di versioni dal greco, all’infinità di temi, alle ossa stanche per le troppe
ore curva sui libri.
Oggi la scuola –
certamente rinnovata: ma non è argomento su cui intendo diffondermi – si muove
in un contesto che, pur con tante possibilità nuove, appare più stanco, con
meno slanci di futuro degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso e con
la difficoltà estrema di un orizzonte più incerto anche sul senso stesso dell’educare/istruire.
Eppure, poche cose sono
più belle che vedere un ragazzo/una ragazza che fiorisce quando comincia a
collegare, rielaborandole, le informazioni apprese facendone un suo pensiero
autonomo.
Penso al brillio negli
occhi di alcune ragazze, di alcuni ragazzi di Nisida. Impagabile.
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