mercoledì 12 febbraio 2020

Cosa rimane dei nostri amori di Olimpio Talarico










«Quando Saverio Marrapodi venne trovato scannato come un porco lungo la strada che dalla vigna di Barracco portava a Santufrasi, l’aria era così profumata di origano da far pensare che tutte le femmine del paese avessero cucinato alici arriganate. Era mezzogiorno passato e a Caccuri la luce si affinava tra i lecci della Villa e i merli del castello con curiose movenze di discreta perlustrazione.»

Quello stesso giorno, a pochi metri di distanza, viene trovato il corpo senza vita di Ermelinda Guzzo e «anche Silvia Spadafora, figlia sedicenne del medico condotto e tanto bella che persino i re magi del presepio si giravano a guardarla, sparì con il clarino sotto braccio, mentre andava al negozio di Sarbaturellu a comprare un paio di etti di mortadella senza pistacchio. Di lei non si seppe più nulla. Era il 19 marzo 1964 e io avevo da poco compiuto sette anni.»

Ventiquattro anni dopo, Jacopo Jaconis – che vive ormai a Roma, è un compositore affermato e marito di una nota regista – viene raggiunto dalla telefonata di Mario Cantorato, maestro che l’ha avviato alla musica, autore di canzoni apprezzate in tutta Italia e tutt’ora direttore della banda del paese. Suo padre, Amilcare Jaconis, preside in pensione, «un uomo dal portamento altero, dai vestiti eleganti, che aveva il vizio, se vizio si poteva chiamare, dei libri e della lettura» è stato arrestato, su accusa del parroco, don Marcello Poli, come assassino di Silvia e indiziato per gli altri due omicidi.

Jacopo torna a Caccuri per stare vicino alla madre e alle tre sorelle, Anna, Lucia e Penelope (ogni nome, nella loro famiglia, è un riferimento letterario) «tutte schette, non si erano mai volute o forse potute sposare (…) Con il tempo avevano costituito una sorta di combriccola difficile da scardinare» e per trovare la verità, qualunque essa sia: «Chiunque incontrassi portava sul volto i segni della rinnovata tragedia (…) e la nuova immagine di un uomo che per decenni aveva formato le coscienze dei caccuresi metteva tutti in un disagio paralizzante, generando un turbamento cupo come il verso delle cornacchie. (…) In quelle ore, e almeno fino alla visita al carcere di Crotone, i dubbi avevano continuato a macinare come le mole del frantoio di don Mico Lopez al Vurdoj durante le annate di carica: tutto maciullato, emotivamente disordinato. Addosso un odore ambiguo di scorze di arance e mandarini a lungo essiccate al sole sulle tafarelle, mentre dalla finestra l’aria entrava e puzzava di piscio di gatto.»

È un viaggio dentro le pieghe profonde del paese dell’infanzia – dove è forte «il conforto della terra», con «l’interminabile distesa degli ulivi, il faticoso strisciare del Neto» le «dolci colline, le più sinuose di tutta la Calabria» – che porta alla scoperta di inattesi segreti di conoscenti, amici e familiari. Il lavorio per raggiungere la verità diventa anche la ricerca, nel più profondo di se stesso, delle note giuste in cui esprimere, in musica, l’inesprimibile, a parole, gamma delle emozioni: «Capii una cosa e cioè che c’erano strappi che volevano dire stringimi forte: tra lo smembramento, l’assenza, il travaglio, in mezzo a qualsiasi dolore doveva esserci un abbraccio a sanare tutto.»

Jacopo riuscirà a scoprire la scorticante verità e, inoltre, avrà un eccezionale successo professionale, facendo rifluire nella musica la sua dolente esperienza, ma sarà una vittoria amara: non sanerà «lo scontento», che continuerà a rendere i suoi occhi «bagnati».

Con Cosa rimane dei nostri amori, edito da Aliberti, Olimpio Talarico conferma le qualità di scrittura già evidenziate nel precedente Amori regalati. L’intreccio tra il giallo e il memoir familiare, movimentato dai passaggi temporali e da quello tra la prima e la terza persona, arricchito da un notevole tratteggio dei personaggi (sia quelli più importanti che i minori) e da una lingua di robusta personalità, innervata di citazioni letterarie, dialetto, umori di una terra misteriosa, dà respiro ad una vicenda che restituisce una Calabria dalla folgorante bellezza paesaggistica e ben lontana da ogni cliché. 

Cresciuto a Caccuri (cui dedica, anche in questo libro, passi di grande bellezza) e residente a Bergamo, Olimpio Talarico ha tutte le credenziali per essere pubblicato da una casa editrice di forte valore nazionale. Esempio non ultimo, ma importante, del fatto che alla Calabria non mancano, attualmente, dei validi scrittori. Ma manca la ribalta nazionale che meriterebbero.

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