«Quando Saverio Marrapodi
venne trovato scannato come un porco lungo la strada che dalla vigna di
Barracco portava a Santufrasi, l’aria era così profumata di origano da far
pensare che tutte le femmine del paese avessero cucinato alici arriganate. Era
mezzogiorno passato e a Caccuri la luce si affinava tra i lecci della Villa e i
merli del castello con curiose movenze di discreta perlustrazione.»
Quello stesso giorno, a
pochi metri di distanza, viene trovato il corpo senza vita di Ermelinda Guzzo e
«anche Silvia Spadafora, figlia sedicenne del medico condotto e tanto bella che
persino i re magi del presepio si giravano a guardarla, sparì con il clarino
sotto braccio, mentre andava al negozio di Sarbaturellu a comprare un paio di
etti di mortadella senza pistacchio. Di lei non si seppe più nulla. Era il 19
marzo 1964 e io avevo da poco compiuto sette anni.»
Ventiquattro anni dopo,
Jacopo Jaconis – che vive ormai a Roma, è un compositore affermato e marito di
una nota regista – viene raggiunto dalla telefonata di Mario Cantorato, maestro
che l’ha avviato alla musica, autore di canzoni apprezzate in tutta Italia e
tutt’ora direttore della banda del paese. Suo padre, Amilcare Jaconis, preside
in pensione, «un uomo dal portamento altero, dai vestiti eleganti, che aveva il
vizio, se vizio si poteva chiamare, dei libri e della lettura» è stato
arrestato, su accusa del parroco, don Marcello Poli, come assassino di Silvia e
indiziato per gli altri due omicidi.
Jacopo torna a Caccuri
per stare vicino alla madre e alle tre sorelle, Anna, Lucia e Penelope (ogni
nome, nella loro famiglia, è un riferimento letterario) «tutte schette, non si
erano mai volute o forse potute sposare (…) Con il tempo avevano costituito una
sorta di combriccola difficile da scardinare» e per trovare la verità,
qualunque essa sia: «Chiunque incontrassi portava sul volto i segni della
rinnovata tragedia (…) e la nuova immagine di un uomo che per decenni aveva
formato le coscienze dei caccuresi metteva tutti in un disagio paralizzante,
generando un turbamento cupo come il verso delle cornacchie. (…) In quelle ore,
e almeno fino alla visita al carcere di Crotone, i dubbi avevano continuato a
macinare come le mole del frantoio di don Mico Lopez al Vurdoj durante le
annate di carica: tutto maciullato, emotivamente disordinato. Addosso un odore
ambiguo di scorze di arance e mandarini a lungo essiccate al sole sulle
tafarelle, mentre dalla finestra l’aria entrava e puzzava di piscio di gatto.»
È un viaggio dentro le
pieghe profonde del paese dell’infanzia – dove è forte «il conforto della terra»,
con «l’interminabile distesa degli ulivi, il faticoso strisciare del Neto» le
«dolci colline, le più sinuose di tutta la Calabria» – che porta alla scoperta
di inattesi segreti di conoscenti, amici e familiari. Il lavorio per
raggiungere la verità diventa anche la ricerca, nel più profondo di se stesso,
delle note giuste in cui esprimere, in musica, l’inesprimibile, a parole, gamma
delle emozioni: «Capii una cosa e cioè che c’erano strappi che volevano dire
stringimi forte: tra lo smembramento, l’assenza, il travaglio, in mezzo a
qualsiasi dolore doveva esserci un abbraccio a sanare tutto.»
Jacopo riuscirà a
scoprire la scorticante verità e, inoltre, avrà un eccezionale successo professionale,
facendo rifluire nella musica la sua dolente esperienza, ma sarà una vittoria
amara: non sanerà «lo scontento», che continuerà a rendere i suoi occhi «bagnati».
Con Cosa rimane dei nostri amori, edito da Aliberti, Olimpio Talarico conferma
le qualità di scrittura già evidenziate nel precedente Amori regalati. L’intreccio tra il giallo e il memoir familiare,
movimentato dai passaggi temporali e da quello tra la prima e la terza persona,
arricchito da un notevole tratteggio dei personaggi (sia quelli più importanti
che i minori) e da una lingua di robusta personalità, innervata di citazioni
letterarie, dialetto, umori di una terra misteriosa, dà respiro ad una vicenda
che restituisce una Calabria dalla folgorante bellezza paesaggistica e ben
lontana da ogni cliché.
Cresciuto a Caccuri (cui
dedica, anche in questo libro, passi di grande bellezza) e residente a Bergamo,
Olimpio Talarico ha tutte le credenziali per essere pubblicato da una casa
editrice di forte valore nazionale. Esempio non ultimo, ma importante, del
fatto che alla Calabria non mancano, attualmente, dei validi scrittori. Ma
manca la ribalta nazionale che meriterebbero.
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