domenica 4 agosto 2019

Pellaro: come sfondo di un romanzo normale. Sogno o possibile realtà?






Pellaro è il quartiere più a sud di Reggio Calabria. Ha una baia – già porto romano e luogo in cui sostò la flotta che avrebbe combattuto a Lepanto – che era bellissima e che, dagli anni settanta in poi del Novecento, è stata deturpata da improvvide costruzioni (e non solo). La visione dell’Etna e delle coste siciliane resta stupenda. Le colline sono dolci: la mia generazione ha conosciuto il grano, gli ulivi, i mandorli, i bergamotti, i vigneti, i ragazzini di oggi molto, molto meno. Molte case si raggruppano lungo la strada Nazionale. Tanti i piccoli ponti che corrispondono a fiumare*, cui si aggiungono i valloni**.

Il quartiere è suddiviso in un gran numero di rioni***. Non so in quanti li conoscono bene tutti. Io, proprio no. Anche perché molti rioni sono a loro volta frammentati in piccole gruppi di case, in quella che un tempo era la comunità della rua (del cortile) o del vicinato e che oggi appare più come un insieme di isole, isolate l’una dall’altra ma anche al loro interno, e che non fanno arcipelago.

Da piccola ho vissuto in un vallone che resta, per me, il paradigma di ogni luce, di ogni colore, di ogni suono perfetto: un luogo povero, dove la fatica continuava a spaccare la schiena, come nei secoli precedenti, eppure armonico: animato da una bellezza semplice, che legava insieme persone, animali, piante e in cui il respiro della terra era lo stesso del respiro del cielo (con l’icona suprema del grano che inondava gli altari del Giovedì santo).

Oggi, il mio, è un rione di cui non saprei identificare con precisione il confine est (non so, per esempio, se il vallone dove sono nata gli appartiene e, nel caso, fino a che altezza). Non so quanti chilometri quadri sia grande né quale sia il suo cuore (ammesso ne abbia uno). Immagino che potrei farne il perimetro a piedi senza difficoltà. Uno spazio piccolo, quindi. Che ha avuto una sua storia tutt’altro che oscura: ci sono suoi resti al Museo Archeologico che aprono le labbra nell’oh di meraviglia. Ed un presente in cui, come nell’insieme della città (metropolitana) di Reggio – nonostante, qui e là, sprazzi felici di vitalità – si annaspa la cappa di una rassegnata stagnazione/recessione (economica, sociale e culturale, con un’emigrazione che continua a depauperare il territorio di giovani forze, molto spesso laureati). La percezione, netta, è quella di un continuo restringersi di vita, dove è molto difficile non solo trovare tracce di buon futuro, ma anche gettarne qualche seme.

Conosco persone che gettano il cuore oltre l’ostacolo e ci provano e persone di cuore e mente aperti, con cui è bello condividere ore e pensieri. Ho amici che stimo e amiche sapienti che sanno di rose. Ma negli ultimi, diciamo, venti anni ho perso il conto degli arrestati, per fatti legati alla ‘ndrangheta. Non conosco le cifre ufficiali, sarei lieta di sbagliarmi, ma mi sembra che il numero delle persone indagate e/o condannate per ‘ndrangheta rispetto alla popolazione residente non sia per nulla basso.
A seguire semplicemente i faldoni dei giudici – senza necessità di spremere la fantasia, con la sola fatica di un po’ di tecnica narrativa – si potrebbero scrivere decine e decine e decine di noir, ambientati da queste parti, con tema: la ‘ndrangheta.

E, invece.

Bisognerebbe attrezzarsi (c’è certamente chi ci pensa e ci prova, ma bisognerebbe essere di più e, soprattutto, più uniti) a far sì che questo luogo – dove il vento, nonostante tutto, porta ancora profumi e c’è ancora tanta bellezza – possa trovare vivacità economico-sociale-culturale. Ed essere, nel caso, sfondo di romanzi normali: storie senza un’aggettivazione che sarebbe bello mettere tra i reperti del passato.

Questo luogo, come i tanti microcosmi della Calabria: diversi ed identici al mio rione, al mio quartiere, alla mia città.

Diceva Mimmo Gangemi, la scorsa domenica, presentando il suo Marzo per gli agnelli ai Caffè Letterari del Rhegium Julii che non scriverà più di ‘ndrangheta, per non contribuire ad una narrazione della Calabria che rischia di fissare per sempre un cliché su di noi. Ma, aggiungeva, che, nei cassetti, ha diciassette inediti: senza precisare quanti di questi ne trattano. 

Insomma: la Calabria ha bisogno di una nuova narrazione. Può una narrazione nuova contribuire a formare una realtà nuova? Sì. Soprattutto ai giorni nostri. Certo, se si parte (si partisse) da una realtà nuova, è (sarebbe) sarebbe più semplice avere anche una narrazione nuova.

*Macellari, San Giovanni, Carro e Quattrone, Lume.
**Filici Primo e Secondo e Perara.
***San Leo (Santu Leu), Occhio (Occhiu), Pantanello (Pantaneddu), Fiumarella (Sciumarèdda), Bocale I e II (Bucàli), San Cosimo (San Còcimu), sulla costa e, nelle zone collinari: Lume (Lùmi), Ribergo (Ribbèrgu), Nocille (Nucìddhi), Lia, Macellari (Maceddhàri), Mortara (Murtara), San Giovanni (San Giuànni), San Filippo (San Fulìppu), Fosse di Comi (Foss'i Comi), Catania e Campicello (Campiceddu).

Pubblicato su Zoomsud con il titolo: Pellaro. Contro la dicerìa dell’untore http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/106062-maria-fr

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