Pellaro è il quartiere più a sud di Reggio Calabria.
Ha una baia – già porto romano e luogo in cui sostò la flotta che avrebbe
combattuto a Lepanto – che era bellissima e che, dagli anni settanta in poi del
Novecento, è stata deturpata da improvvide costruzioni (e non solo). La visione
dell’Etna e delle coste siciliane resta stupenda. Le colline sono dolci: la mia
generazione ha conosciuto il grano, gli ulivi, i mandorli, i bergamotti, i
vigneti, i ragazzini di oggi molto, molto meno. Molte case si raggruppano lungo
la strada Nazionale. Tanti i piccoli ponti che corrispondono a fiumare*, cui si
aggiungono i valloni**.
Il quartiere è suddiviso in un gran numero di
rioni***. Non so in quanti li conoscono bene tutti. Io, proprio no. Anche
perché molti rioni sono a loro volta frammentati in piccole gruppi di case, in
quella che un tempo era la comunità della
rua (del cortile) o del vicinato e che oggi appare più come un insieme di
isole, isolate l’una dall’altra ma anche al loro interno, e che non fanno arcipelago.
Da piccola ho vissuto in un vallone che resta, per me,
il paradigma di ogni luce, di ogni colore, di ogni suono perfetto: un luogo
povero, dove la fatica continuava a spaccare la schiena, come nei secoli
precedenti, eppure armonico: animato da una bellezza semplice, che legava
insieme persone, animali, piante e in cui il respiro della terra era lo stesso
del respiro del cielo (con l’icona suprema del grano che inondava gli altari
del Giovedì santo).
Oggi, il mio, è un rione di cui non saprei identificare
con precisione il confine est (non so, per esempio, se il vallone dove sono
nata gli appartiene e, nel caso, fino a che altezza). Non so quanti chilometri
quadri sia grande né quale sia il suo cuore (ammesso ne abbia uno). Immagino
che potrei farne il perimetro a piedi senza difficoltà. Uno spazio piccolo,
quindi. Che ha avuto una sua storia tutt’altro che oscura: ci sono suoi resti
al Museo Archeologico che aprono le labbra nell’oh di meraviglia. Ed un
presente in cui, come nell’insieme della città (metropolitana) di Reggio –
nonostante, qui e là, sprazzi felici di vitalità – si annaspa la cappa di una
rassegnata stagnazione/recessione (economica, sociale e culturale, con
un’emigrazione che continua a depauperare il territorio di giovani forze, molto
spesso laureati). La percezione, netta, è quella di un continuo restringersi di
vita, dove è molto difficile non solo trovare tracce di buon futuro, ma anche
gettarne qualche seme.
Conosco persone che gettano il cuore oltre l’ostacolo
e ci provano e persone di cuore e mente aperti, con cui è bello condividere ore
e pensieri. Ho amici che stimo e amiche sapienti che sanno di rose. Ma negli
ultimi, diciamo, venti anni ho perso il conto degli arrestati, per fatti legati
alla ‘ndrangheta. Non conosco le cifre ufficiali, sarei lieta di sbagliarmi, ma
mi sembra che il numero delle persone indagate e/o condannate per ‘ndrangheta
rispetto alla popolazione residente non sia per nulla basso.
A seguire semplicemente i faldoni dei giudici – senza
necessità di spremere la fantasia, con la sola fatica di un po’ di tecnica
narrativa – si potrebbero scrivere decine e decine e decine di noir, ambientati
da queste parti, con tema: la ‘ndrangheta.
E, invece.
Bisognerebbe attrezzarsi (c’è certamente chi ci pensa
e ci prova, ma bisognerebbe essere di più e, soprattutto, più uniti) a far sì
che questo luogo – dove il vento, nonostante tutto, porta ancora profumi e c’è
ancora tanta bellezza – possa trovare vivacità economico-sociale-culturale. Ed
essere, nel caso, sfondo di romanzi normali:
storie senza un’aggettivazione che sarebbe bello mettere tra i reperti del
passato.
Questo luogo, come i tanti microcosmi della Calabria:
diversi ed identici al mio rione, al mio quartiere, alla mia città.
Diceva Mimmo Gangemi, la scorsa domenica, presentando
il suo Marzo per gli agnelli ai Caffè
Letterari del Rhegium Julii che non
scriverà più di ‘ndrangheta, per non contribuire ad una narrazione della
Calabria che rischia di fissare per sempre un cliché su di noi. Ma, aggiungeva,
che, nei cassetti, ha diciassette inediti: senza precisare quanti di questi ne
trattano.
Insomma: la Calabria ha bisogno di una nuova narrazione. Può una narrazione nuova contribuire a formare
una realtà nuova? Sì. Soprattutto ai
giorni nostri. Certo, se si parte (si partisse) da una realtà nuova, è (sarebbe) sarebbe più semplice avere anche una
narrazione nuova.
*Macellari, San Giovanni, Carro e Quattrone, Lume.
**Filici Primo e Secondo e Perara.
***San Leo (Santu Leu), Occhio (Occhiu),
Pantanello (Pantaneddu), Fiumarella (Sciumarèdda), Bocale I e II
(Bucàli), San Cosimo (San Còcimu), sulla costa e, nelle zone
collinari: Lume (Lùmi), Ribergo (Ribbèrgu), Nocille (Nucìddhi),
Lia, Macellari (Maceddhàri), Mortara (Murtara), San Giovanni (San
Giuànni), San Filippo (San Fulìppu), Fosse di
Comi (Foss'i Comi), Catania e Campicello (Campiceddu).
Pubblicato su Zoomsud
con il titolo: Pellaro. Contro la dicerìa
dell’untore http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/106062-maria-fr
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