Andrò ad Africo per la seconda edizione di Gente in Aspromonte. Ne sono felice. Di
più: ne sono onorata.
Leggo, qui e là, di piccole polemiche.
Per chi chiede chi paga, sottoscrivo la risposta di
AnnaRosa Macrì: «A spese della Regione. E non c'è niente di più trasparente e “pubblico” di
un evento finanziato da un ente pubblico. Nessuna “direttiva”. Intellettuali,
scrittori, giornalisti, registi che si incontrano e discutono, come avviene in
molte regioni d'Italia e in molte nazioni del mondo. Alcuni sono invitati – io
lo sono e non c'entro nulla né con l'organizzazione né con i criteri degli
inviti – , chiunque può partecipare e, se non ne ha voglia, stare a casa. E,
naturalmente, ha diritto di critica.»
Per chi parla di spot eterodiretto, inviterei a
leggere Gioacchino Criaco: «Africo anche quest’anno ospita Gente
in Aspromonte, due giorni di dibattiti organizzati dalla Regione: l’anno scorso
il tema era una nuova narrazione della Calabria, non nel senso di un racconto
edulcorato o falso o accomodante, solo un racconto vero, senza cartoline o
necrologi, una descrizione per come ognuno liberamente si senta di fare. Contrariamente
a quanto si era paventato, non si erano riuniti degli artisti prezzolati per
santificare la politica. Si è parlato, in modo intelligente o meno, in modo
giusto e sbagliato, qualcuno è stato nel tema e qualcuno ha provato a regolare
conti personali non preordinati. Si è fatto bene e male, ma un luogo, Africo,
si è rivelato dono prezioso, si è offerto come il posto di tutti e non di
proprietà di qualcuno. E ovviamente chi organizza gli eventi non può invitare
persone all’infinito, né prevedere illimitati spazi di intervento. Qualcuno
finisce sempre per sentirsi escluso. Ma Africo, le sue querce intorno a Carrà,
stanno oltre gli spazi e i tempi e possono permettersi di essere di tutti.
L’Aspromonte è un letto vasto, con un materasso sotto ogni ombra, ognuno ci si
può adagiare sotto e dormire, sicuro di stare fra amici. Come l’anno scorso,
anche quest’anno, Africo sarà di tutti: oltre i dibattiti, oltre gli inviti.
Africo è vostro, voi gli appartenete e tutti ci possono e ci devono venire. E
anche a questo proposito: chi organizza non può prevedere un infinito numero di
letti o di pasti. Ma chi va a casa propria può sdraiarsi ovunque, portarsi un
plaid, un sacco a pelo, un pezzo di pane e formaggio da condividere. E gli
Africoti hanno sempre una bisaccia piena e un cuore aperto. La montagna ha
microfoni per tutte le ragioni e palchi per chi ha voce. Potrete seguire o non
seguire, fischiare o applaudire, farvi i vostri discorsi, conoscere amici
nuovi. Africo è un luogo aperto libero, non chiede documenti e non bada al
colore politico. Ai tanti amici che mi chiamano: dal punto di vista ufficiale
sono solo un invitato, non faccio inviti e non organizzo eventi. Per diritto di
natura sono Africoto, Africo è casa vostra, le sue querce aspettano tutti.»
Leggo alcune acide
prese in giro dei presenti ad Africo, tacciati, con un termine che vorrebbe ridicoleggiarli,
di intellighenzia.
Uno dei drammi di
questi ultimi anni è aver considerato la parola “intellettuale” un’offesa da scagliare come un’arma.
Io non sono un
filosofo, un pensatore, un grande professore. Non sono una grande intellettuale.
Ma sono, a livello basso della scala, un’intellettuale. Come qualsiasi
insegnante che prova a ragionare sul suo compito educativo. Come qualsiasi
lavoratore impegnato con la mente. Non è una medaglia sul petto e neppure una vergogna: è la responsabilità di
restituire alla società quello che si è elaborato, sulla base di quanto via via
si è appreso.
Ridicoleggiare gli
intellettuali è un modo – pessimo – di gettare
con l’acqua sporca (la supponenza, la vacuità, l’astrattezza, la
separazione nelle loro torri d’avorio di alcuni) anche il bambino (l’arte,
difficile, di ripensare la realtà, di cercare senso e prospettive).
Dunque. Sarò ad
Africo. Ne sono felice. Di più: ne sono onorata.
Ripreso su Zoomsud:
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