domenica 30 settembre 2018

Carissima Trieste






Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Umberto Saba

Avevo tra 11 e 14 anni quando mi sono innamorata di Trieste. Mi entrò nel cuore con i versi di Saba (allora, a scuola, le poesie si mandavano a memoria). Un amore letterario (come mi è capitato per altri paesi e città, da Recanati a Vienna), coltivato leggendo libri su libri.

A più di cinquanta anni dall’inizio di quest’amore (e a cento dalla fine della prima guerra mondiale: mi nonno paterno è stato uno dei cavalieri di Vittorio Veneto), per la prima volta passo un fine settimana nel capoluogo giuliano, scoprendo che è ancora più bello di quanto mi aspettassi.

A pranzo con amici straordinari (ogni tanto la vita fa regali impagabili), il padre del nostro ospite ne parla con amorosa conoscenza. Gli chiedo: “Qual è l’anima profonda di Trieste?” “L’accoglienza”, risponde e, poi, dopo una pausa aggiunge: “Almeno fino a qualche tempo fa” ed elenca i popoli che da Trieste son passati, che lì sono con-vissuti. Un elenco diverso nei nomi, ma ricco quanto quello che potrei sciorinare per Reggio e dintorni: greci, romani, bizantini, normanni, arabi ecc. ecc. E anche noi avevamo (abbiamo?) il culto dell’accoglienza. “Favorite”, si diceva a chiunque bussasse alla nostra porta, pronti a spartire con lui il nostro (povero) cibo.

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