Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Umberto Saba
Avevo
tra 11 e 14 anni quando mi sono innamorata di Trieste. Mi entrò nel cuore con i
versi di Saba (allora, a scuola, le poesie si mandavano a memoria). Un amore
letterario (come mi è capitato per altri paesi e città, da Recanati a Vienna),
coltivato leggendo libri su libri.
A
più di cinquanta anni dall’inizio di quest’amore (e a cento dalla fine della
prima guerra mondiale: mi nonno paterno è stato uno dei cavalieri di Vittorio Veneto), per la prima volta passo un fine
settimana nel capoluogo giuliano, scoprendo che è ancora più bello di quanto mi
aspettassi.
A
pranzo con amici straordinari (ogni tanto la vita fa regali impagabili), il
padre del nostro ospite ne parla con amorosa conoscenza. Gli chiedo: “Qual è l’anima
profonda di Trieste?” “L’accoglienza”, risponde e, poi, dopo una pausa
aggiunge: “Almeno fino a qualche tempo fa” ed elenca i popoli che da Trieste
son passati, che lì sono con-vissuti. Un elenco diverso nei nomi, ma ricco
quanto quello che potrei sciorinare per Reggio e dintorni: greci, romani,
bizantini, normanni, arabi ecc. ecc. E anche noi avevamo (abbiamo?) il culto
dell’accoglienza. “Favorite”, si diceva a chiunque bussasse alla nostra porta,
pronti a spartire con lui il nostro (povero) cibo.
Nessun commento:
Posta un commento