Il gennaio 1971 fu il più
strano dei miei mesi da studentessa. C’era la rivolta del boia chi molla a
Reggio e le scuole restarono chiuse per un tempo indefinito, che veniva
confermato giorno dopo giorno.
“Ma domani si torna?”
“Boh, non si sa, vediamo.”
Non c’erano i cellulari
(sembra strano, ma chi di noi è nato a metà del secolo scorso, ha vissuto molti
decenni senza) e l’uso del telefono – uno per casa, posto di solito in un
angolo di passaggio, da dove tutti potevano sentire tutto – era molto parco.
Ogni giorno ripetevo le
lezioni, leggevo qualcosa di nuovo, scrivevo qualche poesia sui mandorli in
fiore (ho ancora negli occhi e nel respiro la meraviglia di quel bianco rosato,
di quel profumo che riempiva la campagna) e, in tutto quello che facevo, c’era
come un senso di sospensione, un velo di irrealtà che ne ricopriva la
concretezza.
Ho una sensazione simile
in questi giorni di sospensione della scuola per avverse condizioni climatiche, o, come dice l’ultima ordinanza del
sindaco, per un’anomalia termica
negativa.
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