«Le nostre madri che
erano mamme di gelsomino, fate a colori che ogni notte estiva l’accendevano
come lucciole: contavano ottomila gemme bianche, raccolte delicatamente per non
sciuparle, e le depositavano con cautela nel sacco di lino o nella cesta di junco.
(…) Da mezzanotte a giorno fatto cantavano in mezzo ai filari di gelsomino per
ingannare come sirene quei timidi vampiri bianchi che si richiudevano nelle
loro bare profumate per sfuggire a un sole, per loro, mortale. Ottomila fiori
ci volevano per fare un chilo, e le donne li contavano perché i padroni non le
imbrogliassero sul peso; le campionesse arrivavano a quarantamila per notte,
per riportarsi a casa quelle poche lire buone a riempire le pance dei figli.
Solo chi le ha odorate, quelle albe dense di ritorni profumati, sa quanto
eroismo c’è stato nelle madri calabresi. Solo chi li ha visti, i trucchi buoni
a trasformare qualche cucchiaio di triste concentrato di pomodoro in sontuose e
invitanti pastasciutte, ha assaggiato il coraggio magico delle madri calabresi.
Solo chi c’è stato, nella pancia del popolo calabrese, può saperlo che ci
abbiamo provato a essere migliori.»
A dieci anni dalla
pubblicazione di Anime Nere, Gioacchino Criaco firma con La
maligredi, che Feltrinelli manda in libreria l’otto marzo, un romanzo
maturo e complesso: una sorta di autobiografia di una Calabria che, tra la fine
degli anni cinquanta e quelli sessanta del secolo scorso, perso il suo passato
non privo di male ma ricco anche di favole, santi ed eroi, subisce la sconfitta
del sogno di un futuro migliore.
Raccontando la sua
infanzia e prima adolescenza, il protagonista della storia, Nicola, oscilla tra
due sentimenti. Da una parte, il riconoscimento, mai così esplicitato nella
letteratura calabrese, dell’imprescindibile ruolo delle madri: «…io sono stato
fortunato, ho avuto per madre una mamma di gelsomino Io lo so che nelle lotte
più belle ci sono sempre state le nostre donne in prima fila. E anche se
abbiamo perso, senza di loro la deriva sarebbe stata totale. Che, se ancora una
speranza c’è, lo si deve alla forza morale delle nostre madri, che anche
durante le tempeste più buie hanno fatto di tutto per indirizzarci alla luce.
(…) Io lo so, le madri calabresi non hanno colpe; a volte i figli vengono
sbagliati, nonostante il profumo del gelsomino.»
Dall’altra, la
convinzione che una sorta di maledizione ha accompagnato la vita degli
africoti, segnando per loro partenze, piombo, carcere: «“Lo sapete qual è la
maledizione peggiore del demonio? La maligredi,” disse senza aspettare
risposta. “Che è la brama del lupo quando entra in un recinto e, invece di
mangiarsi la pecora che gli basta per sfamarsi, le scanna tutte. Quando arriva,
la maligredi spacca i paesi, le famiglie, fa dei fratelli tanti Caini e
avvelena il sangue fino alla settima generazione... È peggio del terremoto, e
le case che atterra non c’è mastro buono che sa ricostruirle. A un torto si
risponde con la giustizia, che se si lascia sfogare la vendetta diventiamo lupi
di noi stessi e ci mettiamo in casa la maledizione.”»
Negli anni successivi
all’alluvione del 1951, gli africoti vengono spostati dal loro paese, sulle
falde dell’Aspromonte, in una zona marina. È un mondo povero, unito intorno ai
miracoli dei suoi santi protettori. S’intravvedono segnali di modernità (la
cucina a gas, il frigorifero, qualche rara tv), ma l’economia resta
sottosviluppata, con gli gnuri, i proprietari di terra, chiusi in un
interesse miope. Lo Stato, sotto forma di forze dell’ordine, è considerato
estraneo, quando non ostile e i malandrini sono, se non amati, da
tutti rispettati in quanto dritti.
Nicola vive con la madre
e le due sorelle: «Tanto mio padre non c’era, era in Germania adesso, come
buona parte dei padri e dei fratelli grandi del paese. Lui faceva le macchine a
Wolfsburg», dove, costruitasi una nuova famiglia, si fermerà definitivamente.
A Nicola, e ai suoi due amici più fidati, Antonio e Filippo, viene ben presto offerta la possibilità di fare soldi facilmente. Nello stesso tempo, Nicola scopre la bellezza del lavoro e del guadagno ottenuto col sudore, e, soprattutto, viene coinvolto dalla passione politica di Papula, che sogna una nuova Africo e un nuovo mondo: «“La rivoluzione è cambiare tutto quello che non ci piace, fare le cose che non possiamo fare, avere diritti senza passare da un compare. La rivoluzione è non prendere le mazzate dai carabinieri solo perché così gira al maresciallo...”»
La ribellione popolare
riesce ad ottenere l’apertura della stazione ferroviaria di Africo Nuovo e
Papula guida ad obiettivi più ambiziosi: «“Noi ce l’abbiamo una fabbrica
grande, più grande di molte che stanno al Nord o in Germania: l’Aspromonte,”
(…). L’Aspromonte per Papula era il passato migliore che avevamo avuto, perché
nonostante i tiranni, i padroni che avevano cambiato di nome col trascorrere
dei secoli, le malattie, le catastrofi, il sudore e la fame, era stato l’unico
a proteggerci. Eravamo qui perché lui ci aveva covato come una chioccia – anzi
lei, perché Papula sosteneva che era una femmina, una grande madre.»
La sconfitta della
rivolta popolare appare subito epocale, irreversibile: «Ma non eravamo più un
paese, un pugno d’anime che lottava da millenni contro qualunque demonio.
Eravamo solo una parte, e solo una parte delle rughe e delle baracche. Il paese
era diventato tre paesi: uno che lottava, uno che assisteva, per fame o per
paura, e uno che era diventato il nemico.»
Persa «l’unica certezza
che avevamo sempre avuto, di appartenere a un posto», viene sconfitto anche il
misconosciuto sessantotto calabrese, spazzando via il cooperativismo contadino
e le lotte operaie, in cui avevano avuto un ruolo di primo piano le donne. E
molte vite personali avranno sviluppi inquieti e lontani dalla Calabria.
«La maligredi (…) ha
ingoiato quasi tutti in un enorme buco nero. (…) La maledizione ce l’avevamo
addosso, ce la dovevano levare prima di farci partire. È stata piombo nelle
rughe, fuori dalle rughe, in paese; nelle rughe di altri paesi e in tutti i
paesi della Jonica. La maligredi è stata carcere, prigione infinita per tanti
ragazzi del paese e di tutto il circondario, ne ha divorato sadicamente le
vite, meno pietosa del piombo. Ne ho incontrati centinaia, migliaia. Non li
ricordo più. Sì, la maligredi è stata molte cose e ha assunto le forme più
svariate per portarsi via i figli che la grande madre aspromontana ha generato
dal seme del Libeccio.»
Romanzo in prima persona,
eppure corale, spietato e dolce, La maligredi impasta sentimenti anche
contraddittori (dal ricordo amorevole o orgoglioso al rancore insofferente e
rabbioso) e non poche asperità nella valutazione dei fatti in una visione
rasserenata non solo dalla distanza spazio-temporale dagli eventi, ma,
soprattutto, da una raggiunta maturità: la consapevolezza che il male che la
Calabria ha accumulato nei secoli – e che la generazione di Nicola ha
personalmente scontato – non elimina il bene che essa stessa è riuscita a
vivere.
Superando la scordanza,
che, pure, spesso, gli è servita a sopravvivere, i calabresi possono
tener conto, con cuore e mente ferma, del male e del bene passati, delle
ambiguità e delle contraddizioni della loro storia per affrontare la realtà
presente.
Narrazione distesa e intensa, stile di sobria pienezza, personaggi indimenticabili (da Papula a Cata a papa all’ex maresciallo Giannino), pagine indimenticabili (come la fuga in Aspromonte di Nicola e compagni) con La maligredi Gioacchino Criaco (ri)porta la Calabria al vertice della narrativa italiana di questi anni.
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