È un miracolo che, nell'attuale Italia a forte dimensione brutta, volgare, rancorosa, in una parola: deprimente, continuino davvero in tanti ad alzarsi, la mattina, e provare, per tutto il
giorno, a fare il proprio dovere.
Tra gli eroi del “nonostante”, i
molti insegnanti che ci provano. Giorno dopo giorno, magari con una fatica
immane. Un po’ come quella di questo mio racconto, dal titolo L’insegnante e la speranza dispersa pubblicato
su Zoomsud http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/68450-il-racconto-l-insegnante-e-la-speranza-dispersa.html.
Sarà la stanchezza. Del resto, maggio è un mese
faticoso. La corsa alle ultime interrogazioni, giudizi e relazioni finali da
approntare. Ma c’è, nella mia stanchezza, qualcosa che poco ha a che fare col
lavoro in più a scuola e i dopocena al computer, a completare carte di dubbia
utilità. E, molto, col senso stesso del mio lavoro.
E non dico dell’insegnamento della lingua o della
storia, difficili sì, ma siamo ancora dentro quelle difficoltà che è
entusiasmante provare a sbrogliare, come si tirerebbe fuori ogni energia per
uscire da un groviglio di rovi.
L’angustia viene soprattutto da quella che un
tempo si chiamava Educazione civica e, poi, è diventata Costituzione e
Cittadinanza.
Ho superato da tempo i cinquanta anni, eppure mi
batte ancora forte il cuore a leggere dei tanti che, in un modo o nell’altro,
hanno pagato con la vita l’idea di uno stato unitario, uno d'arme, di
lingua, d’altare: libero e giusto. E le lacrime mi scorrono facili a
leggere, che so, di Borsellino o a rivedere l’urlo, immortale, della Magnani in
Roma città aperta.
Per molti anni, ho iniziato il mio anno
scolastico scrivendo alla lavagna l’articolo 34 della Costituzione, quello
sulla scuola e, poi, leggendo il numero 3. È stato il mio modo per dire: ecco,
vedete, magari intorno a voi non tutto è buono e bello, PERO’ NOI SIAMO QUESTO
PAESE QUA. Insomma, credevo nel “nonostante”. Nonostante il lavoro in nero di
vostro padre, nonostante vostro fratello, brillantemente laureato, sia dovuto
andare lontano a lavorare, nonostante le strade rotte e, magari, qualche bomba
ogni tanto al negozio vicino alla piazza, nonostante la nostra regione resti
così marginale: ecco, voi potete, crescendo, rendere migliore il GRANDE paese
in cui vivete.
Poi qualcosa mi si è spezzato dentro. Non per un
fatto preciso, ma per un accumulo di male. Ecco, lo so che ci sono tante
persone per bene e chi cerca ancora di fare il proprio dovere e di dare alle
parole – libertà, giustizia, uguaglianza, lavoro, famiglia – un senso proprio.
Ma mi sento come sommersa da onde altre.
Troppo brutta è diventata questa terra, la mia
terra, indifferenza e corruzione la corrodono dall’interno, rendono opaca anche
la luce del sole che oggi, nel cielo cristallino, non potrei che definire trionfante.
Un/una insegnante può essere anche bravo a metà,
ma non può essere disperato neppure un po’. Perché, tra i suoi doveri, ha
quello di indirizzare al luogo in cui i suoi alunni diventeranno grandi: il
futuro.
A dire il vero, i miei studenti – belli, come si
è tutti belli a quell’età – non sono disperati. Del resto, non potrebbero
esserlo, non conoscendo la speranza. In fondo, non sanno cosa sia. Vivono il
presente, senza troppe attese di domani. Sono nati e cresciuti in un paese
progressivamente più brutto, più ignorante, più volgare, respirando miasmi, la
cui puzza resta sempre, se non sulla pelle, nell’anima.
Se nessun altro lo fa, dovrei essere almeno io –
lo so – a fargli scoprire le ragioni della speranza.
Ma dove lo trovo più quel ritmo del futuro che,
scorrendo nelle vene, spinge COMUNQUE a costruire, ancora costruire?
N.B: Questo è un racconto, con un “io”
immaginario, volutamente senza nome; non sto parlando di me
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