sabato 24 agosto 2013

Discorrendo di libri (calabresi)







Solido. Equilibrato. Concreto. Uomo che guarda all’eterno, nell’orizzonte dell’intero mondo, e che sta compiutamente dentro il suo spazio e il suo tempo, Antonino Caserta dà voce anche poetica ad una Calabria cattolica e/o ad una cattolicità calabrese poco esplorata.

E’ nella concretezza della vita, quella familiare, la moglie, i figli, i nipoti – Sale, sale, Venere, /dal sud mediterraneo /all’orizzonte del Massiccio. /Vedrete, bambini, /lo sguardo del nonno /scendere sopra un raggio, /risalire poi col vostro. (Da qui, da lì) – e quella dell’impegno lavorativo e sociale,
che si spende il suo essere cristiano.

Pensieri e parole che trovano fondamento in una fede sincera: Tu m’hai dato pensieri /di una parola calda. /Per questo ti rendo grazia /come cardo che fiorisce /nel cocente turbine del sole.
(La tua Parola)

Le esperienze della vita l’hanno condotto anche lontano, ma è la Calabria la terra dell’avventura di Antonino Caserta: Seguo /come Ulisse /il vento /e mai /porto /emerge /dove legare /la gomena /lunga /dei viaggi, /le vele /ammainando /per la notte, /pronte ancora /a salpare /nel giorno /nuovo. (Marina di Rossano).

Un’avventura ricca di azioni – nel lavoro e nell’attività di promozione culturale e sociale del reggino e, in particolare, del catonese, il maestro Caserta ha profuso grandi doti di educatore – e di riflessioni. Di parole a lungo maturate nel confronto con il senso dell’umana esistenza, i problemi della sua terra, e la stupefacente bellezza d’una natura, capace anche di tragedie immani (come il terremoto-maremoto, che non aveva risparmiato la sua famiglia): Non avevo pastelli e tavolozze,/non avevo pennelli né colori, /non avevo né arpe e né violini. /Eppure a me urgeva catturare /armonie di forme colori e suoni /perché non un attimo svanisse /della primavera che esplodeva. (Primavera Jonia)

E guarda anche a quella piccola borghesia operosa e colta, che affonda(va) la sua sensibilità nella cultura popolare più antica e genuina e trova(va) nella religione le motivazioni di un impegno sociale, fuori da ogni limitato interesse di parte e di partito. Un cattolico democratico, che non disdegna le forme popolari, ma autentiche della fede, e si sente responsabile della costruzione della comune città degli uomini. Amando Reggio fino al dolore profondo della (quasi) invettiva: L’arcobaleno non s’annuncia. /Qui pigrizia da deserto /Miopia imbelle d’illetterati /Calcoli furbeschi levantini /Opache presunzioni d’anfitrioni (Reggio 1993)

Preziosa la galleria di “volti”, che conclude questa raccolta. Una serie di epigrafi (tutte interessanti, alcune folgoranti) su quella che è stata la Calabria e specificamente la Calabria popolare e cattolica fino alla metà (in qualche caso quasi i due terzi) del secolo passato. Un’epoca travolta dagli affrettati cambiamenti degli ultimi decenni del 900 e dall’inerzia della prima fase degli anni 2000. Che torna, in tutta la sua concretezza e verità, nelle parole di Antonino Caserta.


Dalla mia prefazione a Epoche, poesie 1993-1996, di Antonino Caserta edito da Città del Sole


Su Zoomsud sono apparse queste due mie recensioni:


Straci di Giuseppe Tripodi edito da Calabria Letteraria


Durante il Giubileo del 1950, mio zio prete portò a Roma i suoi genitori. Andarono anche a visitare un qualche museo, che, si tramanda nei racconti familiari, lasciò mia nonna molto perplessa: “Chi vìttimu? Du straciceddi..”
E’ la storiella che mi viene subito in mente alla parola strace, insieme ad storie simili di contadini e gente semplice stupefatti che si potessero considerare importanti piccole schegge marroncine tanto comuni.

Le straci – termine di chiara origine greca, che indica i cocci di terracotta, usati, tra l’altro, per votare l’ostracismo – “in Calabria (…) servivano per riempire i vuoti nella muratura fatta a secco o con pietra irregolare”.

Che le straci greco-romane, ritrovate ampiamente nel nostro territorio, vadano conservate e trasmesse quale memoria storica non ne dubita alcun archeologo. Giuseppe Tripodi, professore, saggista e scrittore, ritiene che vadano salvaguardate con cura anche le parole-straci.

Ovvero quelle parole che, un tempo, fino ad un cinquantennio fa, sono state la lingua della fascia jonica calabrese «che va da Mélito a Bova, tra le vallate dell’Amendolèa e del Tuccio» e che sono ormai niente più che rimasugli, talvolta riciclati, spesso dimenticati d’un idioma che corrispondeva perfettamente ad una società contadina: «infatti nella Calabria contemporanea la scomparsa dell’economia contadina ha determinato l’eclissi del lessico (legato alle stagioni, agli arnesi, alle tecniche) e del vulcanico laboratorio espressivo collegato alla vita comunitaria e fatto di imprecazioni, soprannomi, folclore, apparati paremiologi».
Scorrono così in Straci, edito da Calabria Letteraria, parole evocative di un mondo passato (da armacera, il muro di contenimento dei terreni, a buffa, ovvero rana a desìu, il desiderio, a sena, complicato pozzo d’acqua, a ‘naca, la culla rudimentale e così via) e anche storie e fatti di persone, «figure a loro modo carismatiche ed educatori informali in forza dell’esempio, diretto e indiretto, che da essi emanava»: parole e storie, eredità di un’appartenenza antropologica.

Un dizionario di parole che «si sono disperse come molecole di gas allo stato libero», sostituite «dalla lingua ibrida e incolore della televisione (sport più telenovelas), che appare incapace di andare oltre la civiltà delle cattive immagini e delle parole volgari».

Che senso ha riportare alla luce suoni e significati del lessico che è stato la lingua materna dei calabresi della fascia jonica meridionale fino alla metà circa del Novecento? “Riesumare queste parole – sostiene Tripodi – può rispondere a un disegno di archeologia linguistica o anche a un’esigenza emotiva combinata con qualche rimasticatura teorica nella convinzione che in molti casi il linguaggio ha un’innegabile capacità evocativa del tempo delle origini e assume “una grande importanza affettiva e conoscitiva”».

Cui, forse, potrebbe aggiungersi una percezione insieme di testa e di cuore: che la consapevolezza piena di cura della propria eredità antropologica, storica, linguistica sia l’antidoto più potente al farsi ostracizzare dal presente e dal futuro, supinamente trascinati dalla corrente del tempo come da una sciumara in piena.


L’Operazione Baytown – Lo sbarco degli Alleati in Calabria, 3 settembre 1943 di Giuseppe Marcianò edito da Laruffa

L’ora X, quella che segna l’inizio della nostra storia contemporanea, scattò alle 4.50 del mattino, quando “con appena venti minuti di ritardo sulla tabella di marcia, il comandante Nicholl, principale maestro di spiaggia, ordinò (‘Go’) ai LCA di spingersi sulle spiagge”.

Provenienti dalla Sicilia, già occupata da quasi due mesi, e precedute da un imponente quanto inutile fuoco di sbarramento, la Prima Divisione canadese e la Quinta Divisione britannica, che formavano parte dell’Ottava Armata, sbarcarono in forze sulle coste reggine, occupando rapidamente la città. 

In coincidenza con il quarto anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale, il 3 settembre del 1943, settanta anni fa, cominciava così da Reggio l’ancora lunga e drammatica riconquista, da parte degli Alleati, dell’Europa continentale.

Giuseppe Marcianò ricostruisce in Operazione Baytown – Lo sbarco degli Alleati in Calabria, 3 settembre 1943, ripubblicato da Laruffa dieci anni dopo la prima edizione, i contesti - militare, politico e sociale - in cui avvenne un’azione di limitato valore bellico e di forte impatto simbolico.

Condotta, secondo il giudizio dello stesso comandante dell’VIII Armata, il generale Montgomery, in maniera tutt’altro che brillante – “Se la preparazione e la condotta della guerra in Sicilia furono cattive, ancora peggiori furono i preparativi per l’invasione dell’Italia e la successiva condotta della campagna in quel paese. (…) Ci proponevamo di invadere l’Europa, senza avere idee chiare circa il modo di sviluppare le operazioni, una volta riusciti a sbarcare” – l’operazione Baytowm non incontrò resistenza effettiva né nelle forze tedesche in precipitosa ritirata né nell’esercito italiano.
Marcianò riporta, a questo proposito, alcune considerazioni, di “straordinaria lucidità e franchezza” del generale Carbone comandante del settore calabro della piazza militare marittima di Messina-Reggio Calabria: “Principalmente la truppa (…) era scossa per i bombardamenti aerei, navali e terrestri che si susseguivano senza posa e con intensità violentissima da oltre quindici giorni, vivendo in mezzo ad una popolazione anch’essa stanca ed esaurita, priva d’assistenza, essendo fuggiti tutti gli organi statali e parastatali, vessata fino al giorno precedente dalle truppe tedesche e che aveva subito una vera invasione di oltre 60.000 uomini inquadrati o sbandati, provenienti dalla Sicilia… (…) la stanchezza e principalmente la propaganda che gli anglo-americani non erano degli invasori ma dei liberatori, la decisa inferiorità nostra di fronte al nemico, l’assenza assoluta di mezzi aereonautici e di batterie antiaeree e antinave efficienti, aveva convinto i quadri inferiori, specie la truppa, che ogni resistenza sarebbe stata vana per mancanza di qualsiasi aiuto”.

Nella prima giornata di operazioni, “gli Alleati avevano conquistato Reggio si erano spinti lungo la statale tirrenica fin nei pressi di Scilla e su quella ionica fino a Melito di Porto Salvo catturando mille soldati italiani a Pellaro. Finora non era stata incontrata alcuna resistenza da parte dei tedeschi, e anche nell’entroterra gli Alleati, sia pur ostacolati dalle difficoltà del terreno e dalle interruzioni stradali, avevano compiuto notevoli progressi. Le perdite canadesi ammontavano a soli nove feriti, nessuno dei quali faceva parte dei battaglioni d’assalto, mentre avevano catturato 3000 soldati italiani e tre tedeschi”.

Mentre le operazioni militari si spostano verso l’impervio Aspromonte, Reggio – stremata da mesi di bombardamenti, che avevano ridotto di molto la popolazione residente (dei 120 mila abitanti, ne erano rimasti meno di 20 mila, mentre tutti gli altri si erano sparsi nelle campagne circostanti) – vide l’instaurarsi di un Governo militare alleato che, oltre i problemi amministrativi, tra cui la sostituzione di alcuni esponenti fascisti (per esempio, quella del podestà prof. Barbaro, una delle poche autorità rimaste in città durante i bombardamenti) con personalità già socialiste e comuniste o del nuovo partito cattolico, dovette affrontarne “quello dell’alimentazione, che si identificava, in gran parte, con quello dell’approvvigionamento della farina”. Se la produzione locale dell’olio, elemento base dell’alimentazione insieme al pane e alla pasta, superava il fabbisogno, la farina doveva essere importata da altre località: “A questa insufficienza strutturale si aggiungevano le particolari difficoltà del periodo bellico (…) In un’epoca in cui, in nome di certe diete ipocaloriche, il consumo di un solo panino deve essere centellinato fra i vari pasti della giornata, potrà sembrare strano che una razione di 100 grammi di pane fosse sinonimo di una vera e propria carestia. Il ripristino, poi, all’inizio del 1944, della razione di 150 grammi fu considerato soltanto il primo passo verso il raggiungimento della razione di 200 grammi, che rappresentava la prima soglia di risicata normalità. Inoltre la razione di pane non comprendeva quella di pasta, che era scesa dai quattro o cinque chilogrammi mensili dei primi anni di guerra al chilogrammo e mezzo dei primi giorni del 1944”.

“Difficile dare una valutazione complessiva – scrive Marcianò concludendo il suo Operazione Baytown, libro ricco di documenti inediti e di un notevole apparato iconografico – di questa particolare e curiosa operazione militare. Il primo obiettivo assegnato a Montgomery (assicurare la libertà di navigazione nello Stretto di Messina) era stato facilmente raggiunto nella stessa giornata del 3 settembre. Il secondo obiettivo, consistente nell’impegnare le divisioni tedesche di stanza in Calabria al fine di aiutare quanto più possibile la V Armata di Clark, a Salerno, era così vago e contraddittorio da non poter essere in alcun modo realizzato. (…) Certamente l’avanzata del 13° Corpo, lungo le tortuose strade calabresi fu lento. (…) In ogni modo, con l’arrivo dei canadesi e degli inglesi, finiva in Calabria quella guerra che il regime fascista, abbagliato dai miraggi di una facile vittoria aveva iniziato nel giugno 1940”.



http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/56538-recensione-straci-di-giuseppe-tripodi.html

http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/56303-la-recensione-l-operazione-baytown-di-giuseppe-marciano.html

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