“Datti una regola; seguila. Rispetta gli orari. Se qualcuno ti è contro, procura di fartelo amico. E ricordati: a un prete si perdona tutto: tutto, meno la mancanza di generosità”.
Il giovane don S., fresco di prima messa, arrivò
a San Pantaleo(ne), con in mente il viatico dell’anziano don Q., la cui cecità,
in seguito alle schegge che un bombardamento gli aveva conficcato negli occhi,
non aveva attutito l’imperiosa autorevolezza né sminuito l’attenta generosità
della gioventù.
Era l’estate del ’46 e il paesino, poche case
arroccate in salita, era ancora lo stesso borgo isolato che, fino a pochi anni
prima, aveva ospitato alcuni confinati politici del regime fascista. Per
raggiungere Reggio, bisognava andare, a piedi fino a San Fantino – solo
pochissimi fortunati potevano pagarsi la vettura a cavallo – a prendere la
corriera a San Lorenzo. Nella piazza, insieme alla chiesa che aveva una
piccola canonica, si affacciavano il macellaio e lo scarparo. Nelle case,
poverissime, le bestie, capre e maiali, convivevano con le persone. E due o tre
case-ville, proprietà di baroni, di sangue e di denari.
Nella famiglia dei F., già il nonno era stato
medico; dei nipoti maschi – i figli erano tutti morti – l’unico ancora vivo, era
farmacista in un paese dell’Aspromonte. Socialista, fissato con
l’istruzione per tutti – sosteneva animatamente con don S. che i bambini
dovevano essere tutti tolti alle famiglie e messi in collegio, prima che la vita
ne differenziasse i destini. Aveva una serva, che in tutto gli teneva
commodo. Più volte le aveva detto: “Se muoio, prima ti prendi i soldi e poi
chiami mia sorella”; così, quando si sentì male col cuore, lei pensò prima a
ripulire la casa e poi a chiamare il medico: si salvò per miracolo.
L’unica sorella del farmacista, la signorina M.,
abitava in un’ampia casa davanti alla canonica. Aveva una
serva-governante-amica-padrona che la rimproverava continuamente di distribuire
troppi beni a chiunque andasse a chiedere e di offrire il caffè, preparato in
abbondanza di primo mattino, a tutti quelli che arrivano durante il giorno,
anche ai coloni, nelle cichere di porcellana. Non c’era famiglia del
popolo che non si fosse fatta battezzare un figlio né ragazza che non avesse
avuto qualche aiuto per la dote. Ogni mattina andavano insieme alla prima messa
ed era la serva a portare nelle case di tutti il pane di ceci che, per
devozione, la signorina impastava ogni anno per la festa di Santa Rita. Educata
dalle suore in un collegio di città e fortemente religiosa, la signorina M.
aveva il grande cruccio di non essersi sposata. Non è che avesse rifiutato
qualcuno aspettando un partito migliore. Semplicemente, nessuno l’aveva voluta:
perché era troppo brutta. Cosa che s’era sentita ripetere per anni, in
contrapposizione alla sorella, lei sì bella, morta giovanissima, con il sotteso,
e talvolta biascicato: “Ma, Dio, non si poteva prendere a te?”. Non aveva alcuna
delle acidità attribuite alle zitelle; piuttosto
un'intelligenza viva e uno sguardo attento, che univa ironia e compassione, ne
accrescevano l'indipendenza dei giudizi, la libertà dello spirito.
Don S. arrivò in parrocchia insieme alla sorella,
una ragazza di meno di venti anni, dalla lunga treccia bionda e dagli occhi
verdi, che da subito entrò nelle simpatie della signorina M. Sbrigate le
faccende domestiche nelle due stanzette della canonica e preparato il pranzo, la
giovane si trasferiva ogni giorno nella più ampia casa dall’altra parte della
piazza. Per la signorina fu l’amicizia fresca e giovane che il paese non le
concedeva, per la ragazza come poter frequentare la scuola che tanto avrebbe
voluto continuare e, nello stesso tempo, trovare una madre più amica di quella
che l’aveva messa al mondo.
Quando don S. venne trasferito ad una parrocchia
più vasta e importante, alle due donne non restò che versare lacrime senza fine
per una separazione che sapevano definitiva. Si videro solo una volta, quando la
signorina M. era ormai prossima alla morte e la sorella di don Santo aveva ormai
una figlia grandicella. Che guardò la signorina M. con il panico che la
vecchiaia, quando mostra le offese dell’istupidimento, suscita in occhi troppo
avidi di giovinezza. Le sarebbero voluti molti anni ancora per riconoscersi
nipote (anche) di quella terza nonna.
Pubblicato su Zoomsud col titolo: Il racconto. La terza nonna http://www.zoomsud.it/commenti/48455-il-racconto-la-terza-nonna.html
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