sabato 3 novembre 2012

La "martorana" al sapore di sorbe acerbe

 
 
Dopo, ho cominciato a cercati. Di mattina esco presto, per passare davanti al bar dove mi hai offerto una cioccolata calda. Che freddo quel giorno, ero scesa dal pullman due fermate prima di casa a comprare, che cosa non so, tu stavi in macchina, hai accostato, mi hai offerto un passaggio. “Sono stanca – ho piagnucolato come una bambina – e ho fame”. Ci siamo fermati al Tahiti, mi guardavi inzuppare la brioche nella cioccolata fumante - un sorriso timido e gli occhi scintillanti. Da quanto tempo mi amavi? Da quanto ti lanciavo sguardi, rispondevo ai tuoi sms come se volessi sottintendere chissà che, ti chiedevo: me lo fai un regalo? Sicura di me, dei tanti che avevo intorno, io giocavo con te. Arrossii, quel tardo pomeriggio, al tuo rossore.
 
Mi sveglio tutte le notti, sudata, il cuore martellante e un senso di voragine che m’inghiotte. Sempre sullo stesso sogno, alla stessa scena. Sento nelle ossa lo schiantarsi della macchina al muro. Dicono che sei morto di colpo, che non hai sofferto. Le mie ossa sono tutte rotte. Ogni notte quello schianto, nel corpo e nell’anima.
 
Pensavo avessi un volto. Ho scoperto che avevi tante facce: felici e tristi, timide e sicure, serie e buffe. Mi passano tutte in mente, ricordo ogni sfumatura, la piega delle labbra imbronciate, i capelli scompigliati, l’ombra sulla nuca se ti giravi all’improvviso. Ad ogni faccia si mescola il tuo volto nella bara. Avevi come un sorriso amaro, di una sconfitta temuta, che speravi di spostare in avanti e invece no, eccola lì.
 
Non ti ho abbracciato, da morto. Non ho mai baciato i morti. Ho finto di appoggiare le labbra sui parenti più stretti, per orrore del gelo dei corpi. Con te è stato diverso: come se lì, nella bara, non ci fosse che un simulacro, una maschera, e tu fossi andato da un’altra parte. Avevi deposto l’involucro – le tue mani erano ancora belle – ed eri volato via: perché?, perché? L’assurdità lacerava l’aria immota: perché la terra non si apriva per inghiottirci tutti e i fiori nelle tante ghirlande mantenevano il loro colore? Perché il mare non trascinava a fondo case e persone? Mi accorgevo di respirare. Tu non respiravi più. Condannata a crescere, senza di te.
 
Sapevo che eri più grande di me. Non solo per gli anni, quasi trenta tu, poco più di venti io. Anzi, certe volte che ridevi e scherzavi potevi sembrare un ragazzino. Ma i tuoi pensieri non erano i miei. Io volevo ballare e divertirmi e correre sulle moto e dimenticare i guai della mia famiglia. Tu sorridevi, ma eri pieno di mille pensieri: anche quando stavi con me. Sapevo che mi amavi. Come nessuno mai mi aveva amato. Come nessuno mi amerà.
 
Ero lusingata dai tuoi occhi che, a vedermi, si riempivano di tutte le risa del mondo, dei messaggi che, in giornate di lavoro pesante, non dimenticavi mai di mandarmi, e di tutte le tue attenzioni. Uscivamo insieme. Io uscivo con altri.
 
Capii di amarti un venerdì sera. Siamo andati a mangiare in una pizzeria sul mare, eravamo in tanti. Qualcuno raccontava barzellette, ridevamo come pazzi. Non so come fu che, al ritorno, restammo soli. Guidavi piano, la luce della luna tra gli alberi disegnava la notte. Ero su di giri, forse avevo anche bevuto un po’. Tu eri serio, anche un pizzico triste, ma sorridevi gentile. “Fermati”: era bello quell’angolo segnato da una scia di luce argentata. Parcheggiasti. Tirasti fuori dalla tasca un pacchetto piccolo. “Lo sai che non mi piacciono le cose piccole”. “Aprilo”. Non dicesti “Per favore”, ma ce l’avevi negli occhi. Mi avevi regalato tanti piccoli oggetti di bigiotteria: fini, eleganti, che non mettevo mai. Nel pacchetto c’era un brillantino piccolissimo, con una catenina sottile. Volevo ripetere “Ma lo sai che non mi piacciono le cose piccole”, ma mi sentii sopraffatta da un’emozione nuova, come un naufrago che trova l’approdo.
 
Successe il giorno dopo. Non ho mai voluto sapere come e perché. Non so se ancora t’ho perdonato d’avermi lasciata sola. Non dovevi tradirmi così. Sopravvivo dentro il tuo sguardo. Se la mattina ancora mi alzo è perché nei miei occhi – ormai secchi, non ho più lacrime – tornano i tuoi. Ho perfino imparato a sorridere ancora – qualcuno pensa che t’ho dimenticato – e intanto sono un cumulo di macerie. Un terremoto mi ha squassato.
 
Ho lasciato la macchina giù nello slargo vicino alla chiesa di San Giovanni e ho fatto a piedi la salita – cimitero è una parola insopportabile, meglio l’apnea di camposanto – tra gli ulivi, i fichi d’india e gli oleandri. La frutta martorana, assaggiata a colazione, mi risale in bocca col sapore di sorbe acerbe.
Dal cocuzzolo della collina si domina lo Stretto, da un capo all’altro dell’orizzonte. Attraverso la folla silenziosa fino alla tua tomba. Poi ridiscendo, dissolta e lieve, con nel vento leggero l’eco della tua voce. E mi sento come quando, dopo ore di tempesta, il mare alto che sbatte violento sulla riva si placa in trasparenze cristalline.
 
 

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