Metà degli anni sessanta, più o meno. Stagione mite, primavera o pre-autunno.
Ricordo come un venticello gradevole nell’autobus e, poi,
nel Tempio della Vittoria– con gli anni avrei
trovato fastidioso questo termine, più adatto agli dei antichi o alla religione
civile, meglio, nella chiesa di San Giorgio al Corso - una
sensazione di spaesamento, quasi di lieve vertigine. Quello che mi colpì davvero
non fu quel primo uso della lingua italiana – era così bello sentirne il suono
anche se, con l’inizio del ginnasio, non mi sarebbe forse dispiaciuto misurarmi
con il latino, sorridendo a quel “grazia prena” (prena erano le vacche incinte,
certo non la “piena di grazia”) con cui le vecchiette, nella chiesetta delle mie
domeniche, ritmavano l’Ave Maria. Mi colpì la posizione del prete, che non dava
più le spalle ai fedeli, bensì le dava all’altare, rivolgendo ai fedeli il suo
volto. Mi diede un’impercettibile sensazione di fastidio, come l’involontaria
visione di un’immagine poco opportuna. Oggi sono propensa a ritenere che quel
cambiamento di posizione (lo sguardo non all’Altissimo, ma a se stessi) ha avuto
un peso non indifferente nel successivo indebolimento della chiesa cattolica
nella nostra società.
Dovessi scegliere un solo rito, tra tutti quelli
della mia infanzia, non avrei dubbi: l’adorazione, della sera del Giovedì Santo
e del Venerdì mattina, a quello che allora si chiamava “il sepolcro”. Quei vasi
di grano tenero, verde bambino, verde appena cresciuto, verde quasi dorato con i
grandi fiocchi di raso – colore dominante, il rosso: quasi papaveri in giardino
– che plasmavano davanti allo sguardo, tra il profumo dei fiori e dell’incenso,
la costante rinascita della vita, che continuamente abbatteva la morte. Un
simbolo semplice e potente, perfettamente comprensibile in un tempo e in un
luogo in cui la terra era riferimento per tutti.
Si usano ancora i vasi di grano – non in tutte le
parrocchie, ma in molte chiese sì. E’ un sollievo vederli, ma gli altari, detti
ora “della reposizione”, hanno qualcosa di artificioso: il segno non contiene
più in sé l’eco profonda, l’onda perpetua del suo significato. Resta opaco.
Quanto conta, nell’impatto emozionale, la simbologia in una dimensione
fortemente spirituale come quella religiosa? Come e quanto parlano i simboli del
cattolicesimo, legati ad una realtà di contadini-pastori-pescatori, in una
società dove il “cinguettio” più ascoltato non è quello degli uccelli?
La religione non è una dimensione individuale.
Trovo davvero “forzato” il pensiero di chi lo sostiene: perché è una visione
globale della realtà che non si toglie e si mette come un soprabito. Altra cosa
è la “laicità”, il saper scindere il proprio modo di vedere dalle norme e dalle
regole che riguardano la società, dove, in democrazia, l’equilibrio di diritti e
doveri corrisponde al mutare di quanto la maggioranza ritiene migliore o
peggiore, fermo restando che, nelle forme e nei limiti della legge, ad ognuno è
dato di concorrere al formarsi dell’idea collettiva vincente.
Non so se la chiesa – quella che possiede anche
beni economici – paghi o meno sufficientemente le tasse: se non lo fa, che si
cambino norme, con equità, senza buttare il bambino (le effettive attività
caritatevoli) con l’acqua sporca (dei privilegi). Non apprezzo la gestione
dell’ora di religione: una persona di media cultura dovrebbe conoscere la
storia, le tradizioni, gli usi delle religioni, almeno le più importanti, e, in
Italia, dovrebbe avere una conoscenza non superficiale del cattolicesimo (se no,
non capisce, ed è una perdita secca, né Dante, né Manzoni, né Giotto, né
Michelangelo e così via) e della Bibbia. E’ vergognoso che persone che sanno di
letteratura, di storia, di scienze ignorino che cosa ci sia scritto nella
Bibbia.
Non mi piace la chiesa – intendo quella che con
ogni o maggiore evidenza può essere considerata portavoce del cattolicesimo
(preti, vescovi, cardinali) – che parla troppo di cose del mondo: se bisogna o
meno costruire una strada o un inceneritore, mettere o togliere una certa tassa
ecc. ecc. – che perde tempo ed energie in faccende troppo discutibili, troppo
dipendenti da fattori contingenti e dove la giustezza o meno della posizione
assunta verrà in fondo decisa a posteriori dall’incontrollabile flusso degli
eventi. Anche quella che guida le lotte alla mafia ecc. ecc.: tutti compiti
nobilissimi, che non si vede perché non debbano essere condotti da padri di
famiglia, donne capaci, giovani volenterosi.
Non mi interessa davvero sapere cosa il cardinale
di Napoli, Sepe, pensa dell’amministrazione De Magistris e neppure che cosa il
vescovo di Reggio, Mondello, pensa dello scioglimento del Comune per contiguità
malavitosa. Considero ovvio il "no" ad ogni "male" (violenza, sopruso, scelte di
morte) e non identificabile il "peccatore" con la sua "colpa" (grande lezione di
un Papa, appena citato dal leader democrat come suo riferimento ideale). E non
mi intriga dibattere sulle sfumature del pensiero dei vescovi Nunnari e Morosini
riguardo il perdono agli ‘ndranghetisti.
Alla chiesa chiederei un’altra cosa:
evangelizzare. E’ ben strano che nella società che sforna notizie su notizie,
che è sempre alla ricerca di quella più nuova e più interessante, non passi la
Notizia. Quella buona. Che ha a che fare col senso del nostro essere qui hic et
nunc e con la vita eterna. (Naturalmente, con tutta la libertà di accoglierla o
meno; di considerla "salvezza" o "stupidità" ecc. ecc.)
Che non nasconde la Storia, anzi, parafrasando
Bonhoeffer, sa che nessuno che non abbia i piedi radicati nel presente
raggiungerà mai il Cielo, ma conosce la differenza tra le scelte storiche
fondamentali (un cristiano non può seguire Hitler) e quelle di importanza
meramente contingente (per cui un cattolico può stare, con uguale dignità e
decenza, in un partito di destra, di centro e di sinistra).
Decidere se stare dalla parte o contro Scopelliti
e Arena, per o contro D’Attore ecc. ecc. ha la sua importanza – non solo
politica, ma anche morale. Ma, come dire, è scelta “discutibile”: che non
attiene a ragioni “di fede” religiosa, ma a convincimenti, conoscenze
(culturali), interessi (non necessariamente meschini), esperienze di vita
(lavoro, viaggi) del tutto “storici”: transeunti, mutabili.
Non è quello che mi importa (importerebbe)
sentire da chi sale all’altare.
L’unica parola che ascolterei come indispensabile
è quella che, bucando l’opacità, il senso di freddo e di stantio di certe
celebrazioni, sommuova le viscere e dia, con una speranza assoluta, respiro
trascendente anche all’impegno dei giorni.
Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/42957-sulla-chiesa-anche-calabrese-io-la-vedo-cosi.html
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