mercoledì 21 novembre 2012

L'amica più bella


 
A Lianella Scambia Condello
 
 
 
C’erano sempre i gabbiani sul mare

quando, tornando da Messina,

uscivamo sul ponte a prenderci

il vento tra i capelli…

9/2/79

 

A quali occhi somigliavano i tuoi

occhi? Agli occhi belli di Lianella

velluto e seta, impercettibile

carezza dell’anima all’anima…

17/5/2008


Cecilia, Lia, Lianella la conobbi a casa dell’onorevole Misefari, uno dei padri del Pci in Calabria. Dolce, timida, le spalle leggermente incurvate, gli occhi profondi e ridenti. Nel suo vestiario il segno di un certo benessere economico, ma portato con molta semplicità e discrezione.
Avremmo dovuto, secondo l’anziano e autorevole onorevole, ordinare il suo archivio, ma, all’inizio, non trovammo che giornali abbastanza comuni e opuscoli di non straordinaria importanza. Restavamo qualche ora nello studio a prendere polvere e poi, io con la scusa dell’autobus e lei con quella d’accompagnarmi, scappavamo: dalla cardinale Portanova al Duomo, praticamente tutto il Corso. Chissà perché non ricordo in quel periodo pomeriggi di sole: la rivedo con me sotto una pioggia leggera, tranquillamente grigia, che non ci impediva di prendere un gelato. Non so che cosa dicessimo. Forse le raccontavo della tesi che stavo preparando e lei, che aveva appena finito l’Università, mi diceva del tentativo di ottenere una borsa di studio.
C’era qualcosa d’incerto nel suo sguardo, di smarrito; mi venne più volte il dubbio che fosse troppo dolce, ma avrei ben presto capito quant’era forte.
Venne con me a Gambarie, al corso annuale delle Acli. Non credo che né a me né a lei sia rimasto molto di quanto in quei giorni si veniva discutendo, anche se alle riunioni prendevamo seriamente parte tutt’e due, ma piuttosto l’atmosfera di amicizia, di allegria, di gioia che abbiamo tante volte rievocato. Le camminate al mattino nei boschi, il latte caldo di un sapore mai più provato e soprattutto le sere, quando sedutici a cena, non appena cominciava ad apparire il solito brodino, Piero, Mimmo, Rita, Lia, io e qualche altro sparivamo e andavamo a mangiare in una bettola, una stanza vuota e malconcia, del pane di grano freschissimo, salame e formaggio e, inevitabile per Piero, pasta aglio e olio. Le barzellette, i racconti, le risate e le peripezie dell’850 barcollante di Rita, il calore di quelle sere tiepide di settembre; i canti da falsi ubriachi tornando in albergo: tra le sere più belle, indimenticabili della nostra vita.
A Gambarie passammo solo una settimana, ma fu come se avessimo passato anni. Lia continuava a parlare pochissimo si sé, ma intanto cresceva la mia stima e la mia simpatia per lei. E parlavo, parlavo. Lungo i viali di Gambarie, lei ascoltava, commentava, incoraggiava, rasserenava. E continuava ad ascoltare, in quei ritorni da Messina, sul ponte del traghetto, in giornate piene di luce, caldo, sole, con i gabbiani che non annunciavano pioggia ma ancora nuovo sole.
Partì per Biella, dove aveva trovato lavoro. Cominciò per lei una stagione d’esperienze – il freddo, la noia d’un cittadina di provincia, un lavoro di animazione al pomeriggio che non corrispondeva certo alla sua preparazione – e di esilio. Reggio le mancava infinitamente.
L’anno dopo, il convegno delle Acli si svolse a Brancaleone. Arrivarci fu quasi un’avventura. Ci incontrammo alla Centrale subito dopo pranzo; l’unico treno utilizzabile era un accelerato: un viaggio, insomma, di ore. Arrivammo che era quasi sera, il sole scomparso, l’aria grigia che segue il tramonto, il tratto dalla stazione all’albergo solitario. Un albergo da ridere, in quel luogo: elegante, tutto moquette e poltrone, isolato nel bel mezzo di una campagna bruciata dal sole, immerso nel ronzio degli insetti. Eravamo praticamente fuori dal mondo: niente lunghe passeggiate, niente gelati, niente cene nelle bettole. Molto tempo per parlare, tanto più che stavamo tutte e due nell’inquieta fase che precede il matrimonio. Adesso anche lei si diceva: i suoi sentimenti, le sue paure: inquietudini vaghe, preoccupazioni incapaci di trovare parole precise.
Parlava assorta, dolce, un velo di sgomento negli occhi profondi e nerissimi, un impercettibile trasalimento che le increspava il volto.
Quando si svestiva per la notte – un corpo perfetto, la pelle olivastra ma piena di luce, il seno florido – mi chiedevo se si rendesse conto di quant’era bella.
L’ultimo giorno, mentre tutti gli altri tornarono a Reggio subito dopo il pranzo, il solito gruppetto – Piero, Rita, Mimmo, noi due – salimmo a Gerace. Mi sarebbe piaciuto sposarmi lì, in quel paese abbandonato, con la sua struttura medievale praticamente intatta, le decine di chiese, la visione della valle fino allo Ionio. Era una specie di sopralluogo, ma questo lo sapevamo solo lei ed io. E anche Lianella, girovagando per quelle stradine, cominciò a pensare che quello era il luogo giusto per sposarsi – “Ma bisognerà rifornire gli inviatati di pelliccia”, la cripta della cattedrale essendo freddissima – l’arrivederci più bello alla Calabria prima di andare via.
Ci sposammo – a Reggio, non a Gerace – a pochi mesi di distanza l’una dall’altra: cominciammo a vivere davvero in parallelo. Tutt’e due lontane da una terra amata senza misura, da un ambiente umano in cui ci sentivamo vive; alle prese con problemi semplici ed enormi – cucinare, lavare, stirare – e con molti nodi da sciogliere.
Il lavoro le costava molto: sveglia alle quattro del mattino, ritorno non prima delle tre del pomeriggio, quattro ore sul treno ogni giorno, almeno due cambi, ragazzi difficili a Torino, politicizzati, sì, ma anche più disposti a distruggere il vecchio che a creare il nuovo.
Studiava, leggeva. A Torino frequentava conferenze, andava a vedere mostre, seguiva anche qualche lezione all’Università; pensava di prendere una seconda laurea.
Le pesava come assurdo e crudele il fatto che per lavorare dovesse restare lontana dalla Calabria. Nel ricordo Reggio si faceva mito: piena di vita, di attività e, soprattutto, piena di sole, bella. Cuneo, al contrario, le appariva sempre più fredda, con la gente tesa ad accumulare denaro, distante, non nemica, ma indifferente.
Nelle sue lettere – pagine intense, che leggevo e rileggevo avidamente – c’era tutto il suo essere con gli altri, nella storia, e, insieme, tutto il suo bisogno di vivere ritirata, lontana da mondo, immersa un po’ nel sogno. Un dolore, prima appena accennato, poi sempre più esplicito si faceva strada: il timore di non poter avere figli e il conseguente calvario di medici, visite, analisi.
Lei che non aveva mai preso un’aspirina, cominciò a vivere di pillole e iniezioni. Il timore si stemperava a tratti in speranza, per precipitare più spesso in disperazione.
Ogni lettera, ogni telefonata, ci invitavamo reciprocamente a “venirci a trovare”. L’occasione la trovammo, finalmente, per le elezioni del giugno 78, poiché io dovevo scendere a Reggio in quel periodo e lei doveva andarci a votare. Avrei voluto che restasse qualche giorno a Napoli, ma arrivò di sabato sera. Il tempo di cenare, di vedere un po’ la casa, e la mattina seguente, dopo il mio voto, la nuova partenza.
Il treno stracolmo e in ritardo; il sole caldo e sempre più cocente; i contrattempi non riuscivano a incrinare la gioia di Lia di scendere e la nostra di rivederci finalmente da sole.
Parlammo da Napoli a Reggio senza interruzione. La nostra vita si sgomitolava nelle nostre frasi, senza pudori, senza riserve: a lei potevo dire ciò che nessuno poteva ascoltare, lei poteva fare lo stesso con me. Da Scalea in poi, il viaggio lo facemmo in piedi, al finestrino: l’orrore di una costa distrutta, ma poi più giù, dopo Amantea, fasce di mare viola e verde, spiagge libere per chilometri con la gente che faceva il bagno e, soprattutto, ginestre: il loro profumo, nel caldo afoso, ci inebriava. Il bisogno di un figlio si era come cristallizzato in una disperazione non rassegnata.
Non credeva che si trattasse di una causa psicologica ma sembrava propensa a fingerselo, per stare un po’ tranquilla, qualche mese, almeno l’estate, leggendo qualche libro, sotto il gelsomino, nel giardino della sua casa.
Rifeci lo stesso viaggio pochi mesi dopo: da sola, col cielo grigio carico di pioggia. Lia passata dalla vita alla morte in un istante, in un ospedale del Nord, per una maledetta analisi. Certo con la non rassegnata dolcezza e con l’eroica mitezza di chi aveva lottato consapevole che, alla fine, avrebbe perso.
A Reggio pioveva. Rade gocce, come d’una malinconia struggente che si vuole il più possibile contenere. La corsa in macchina dalla stazione alla sua casa. Arrivai proprio mentre il furgone mortuario si fermava davanti alla porta e la bara, appena giunta in aereo, rientrava per un istante nella casa della sua fanciullezza.
La folla immensa in chiesa. Fuori, per l’ultimo commiato, un albero si dondolava, lacrimando sulla bara  rivoli di pioggia sottile e silenziosa, ma all’improvviso si fece uno squarcio  azzurro nel cielo e nuvole rosse brillarono, poi, fino a notte. L’abbraccio di Nicoletta, la sorella: “Ah, Maria, tu sai cosa aveva in cuore Lia…”
 
Sì, io lo so…
Lianella è morta il 2 febbraio del 1979. Qualche anno dopo è morto anche Piero Ravenna.

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