A Lianella Scambia Condello
C’erano sempre i gabbiani sul mare
quando, tornando da Messina,
uscivamo sul ponte a prenderci
il vento tra i capelli…
9/2/79
A quali occhi somigliavano i tuoi
occhi? Agli occhi belli di Lianella
velluto e seta, impercettibile
carezza dell’anima all’anima…
17/5/2008
Cecilia, Lia, Lianella la conobbi a casa dell’onorevole
Misefari, uno dei padri del Pci in Calabria. Dolce, timida, le spalle
leggermente incurvate, gli occhi profondi e ridenti. Nel suo vestiario il segno
di un certo benessere economico, ma portato con molta semplicità e discrezione.
Avremmo dovuto, secondo l’anziano e autorevole onorevole,
ordinare il suo archivio, ma, all’inizio, non trovammo che giornali abbastanza
comuni e opuscoli di non straordinaria importanza. Restavamo qualche ora nello
studio a prendere polvere e poi, io con la scusa dell’autobus e lei con quella
d’accompagnarmi, scappavamo: dalla cardinale Portanova al Duomo, praticamente
tutto il Corso. Chissà perché non ricordo in quel periodo pomeriggi di sole: la
rivedo con me sotto una pioggia leggera, tranquillamente grigia, che non ci
impediva di prendere un gelato. Non so che cosa dicessimo. Forse le raccontavo
della tesi che stavo preparando e lei, che aveva appena finito l’Università, mi
diceva del tentativo di ottenere una borsa di studio.
C’era qualcosa d’incerto nel suo sguardo, di smarrito; mi
venne più volte il dubbio che fosse troppo dolce, ma avrei ben presto capito
quant’era forte.
Venne con me a Gambarie, al corso annuale delle Acli. Non
credo che né a me né a lei sia rimasto molto di quanto in quei giorni si veniva
discutendo, anche se alle riunioni prendevamo seriamente parte tutt’e due, ma
piuttosto l’atmosfera di amicizia, di allegria, di gioia che abbiamo tante
volte rievocato. Le camminate al mattino nei boschi, il latte caldo di un
sapore mai più provato e soprattutto le sere, quando sedutici a cena, non
appena cominciava ad apparire il solito brodino, Piero, Mimmo, Rita, Lia, io e
qualche altro sparivamo e andavamo a mangiare in una bettola, una stanza vuota
e malconcia, del pane di grano freschissimo, salame e formaggio e, inevitabile
per Piero, pasta aglio e olio. Le barzellette, i racconti, le risate e le
peripezie dell’850 barcollante di Rita, il calore di quelle sere tiepide di
settembre; i canti da falsi ubriachi tornando in albergo: tra le sere più
belle, indimenticabili della nostra vita.
A Gambarie passammo solo una settimana, ma fu come se
avessimo passato anni. Lia continuava a parlare pochissimo si sé, ma intanto
cresceva la mia stima e la mia simpatia per lei. E parlavo, parlavo. Lungo i
viali di Gambarie, lei ascoltava, commentava, incoraggiava, rasserenava. E
continuava ad ascoltare, in quei ritorni da Messina, sul ponte del traghetto,
in giornate piene di luce, caldo, sole, con i gabbiani che non annunciavano
pioggia ma ancora nuovo sole.
Partì per Biella, dove aveva trovato lavoro. Cominciò per
lei una stagione d’esperienze – il freddo, la noia d’un cittadina di provincia,
un lavoro di animazione al pomeriggio che non corrispondeva certo alla sua
preparazione – e di esilio. Reggio le mancava infinitamente.
L’anno dopo, il convegno delle Acli si svolse a Brancaleone.
Arrivarci fu quasi un’avventura. Ci incontrammo alla Centrale subito dopo
pranzo; l’unico treno utilizzabile era un accelerato: un viaggio, insomma, di
ore. Arrivammo che era quasi sera, il sole scomparso, l’aria grigia che segue
il tramonto, il tratto dalla stazione all’albergo solitario. Un albergo da
ridere, in quel luogo: elegante, tutto moquette e poltrone, isolato nel bel
mezzo di una campagna bruciata dal sole, immerso nel ronzio degli insetti.
Eravamo praticamente fuori dal mondo: niente lunghe passeggiate, niente gelati,
niente cene nelle bettole. Molto tempo per parlare, tanto più che stavamo tutte
e due nell’inquieta fase che precede il matrimonio. Adesso anche lei si diceva:
i suoi sentimenti, le sue paure: inquietudini vaghe, preoccupazioni incapaci di
trovare parole precise.
Parlava assorta, dolce, un velo di sgomento negli occhi
profondi e nerissimi, un impercettibile trasalimento che le increspava il
volto.
Quando si svestiva per la notte – un corpo perfetto, la
pelle olivastra ma piena di luce, il seno florido – mi chiedevo se si rendesse
conto di quant’era bella.
L’ultimo giorno, mentre tutti gli altri tornarono a Reggio
subito dopo il pranzo, il solito gruppetto – Piero, Rita, Mimmo, noi due –
salimmo a Gerace. Mi sarebbe piaciuto sposarmi lì, in quel paese abbandonato,
con la sua struttura medievale praticamente intatta, le decine di chiese, la
visione della valle fino allo Ionio. Era una specie di sopralluogo, ma questo
lo sapevamo solo lei ed io. E anche Lianella, girovagando per quelle stradine,
cominciò a pensare che quello era il luogo giusto per sposarsi – “Ma bisognerà
rifornire gli inviatati di pelliccia”, la cripta della cattedrale essendo
freddissima – l’arrivederci più bello alla Calabria prima di andare via.
Ci sposammo – a Reggio, non a Gerace – a pochi mesi di
distanza l’una dall’altra: cominciammo a vivere davvero in parallelo. Tutt’e
due lontane da una terra amata senza misura, da un ambiente umano in cui ci
sentivamo vive; alle prese con problemi semplici ed enormi – cucinare, lavare,
stirare – e con molti nodi da sciogliere.
Il lavoro le costava molto: sveglia alle quattro del
mattino, ritorno non prima delle tre del pomeriggio, quattro ore sul treno ogni
giorno, almeno due cambi, ragazzi difficili a Torino, politicizzati, sì, ma
anche più disposti a distruggere il vecchio che a creare il nuovo.
Studiava, leggeva. A Torino frequentava conferenze, andava a
vedere mostre, seguiva anche qualche lezione all’Università; pensava di
prendere una seconda laurea.
Le pesava come assurdo e crudele il fatto che per lavorare
dovesse restare lontana dalla Calabria. Nel ricordo Reggio si faceva mito:
piena di vita, di attività e, soprattutto, piena di sole, bella. Cuneo, al
contrario, le appariva sempre più fredda, con la gente tesa ad accumulare
denaro, distante, non nemica, ma indifferente.
Nelle sue lettere – pagine intense, che leggevo e rileggevo
avidamente – c’era tutto il suo essere con gli altri, nella storia, e, insieme,
tutto il suo bisogno di vivere ritirata, lontana da mondo, immersa un po’ nel
sogno. Un dolore, prima appena accennato, poi sempre più esplicito si faceva
strada: il timore di non poter avere figli e il conseguente calvario di medici,
visite, analisi.
Lei che non aveva mai preso un’aspirina, cominciò a vivere
di pillole e iniezioni. Il timore si stemperava a tratti in speranza, per
precipitare più spesso in disperazione.
Ogni lettera, ogni telefonata, ci invitavamo reciprocamente
a “venirci a trovare”. L’occasione la trovammo, finalmente, per le elezioni del
giugno 78, poiché io dovevo scendere a Reggio in quel periodo e lei doveva
andarci a votare. Avrei voluto che restasse qualche giorno a Napoli, ma arrivò
di sabato sera. Il tempo di cenare, di vedere un po’ la casa, e la mattina
seguente, dopo il mio voto, la nuova partenza.
Il treno stracolmo e in ritardo; il sole caldo e sempre più
cocente; i contrattempi non riuscivano a incrinare la gioia di Lia di scendere
e la nostra di rivederci finalmente da sole.
Parlammo da Napoli a Reggio senza interruzione. La nostra
vita si sgomitolava nelle nostre frasi, senza pudori, senza riserve: a lei
potevo dire ciò che nessuno poteva ascoltare, lei poteva fare lo stesso con me.
Da Scalea in poi, il viaggio lo facemmo in piedi, al finestrino: l’orrore di
una costa distrutta, ma poi più giù, dopo Amantea, fasce di mare viola e verde,
spiagge libere per chilometri con la gente che faceva il bagno e, soprattutto,
ginestre: il loro profumo, nel caldo afoso, ci inebriava. Il bisogno di un
figlio si era come cristallizzato in una disperazione non rassegnata.
Non credeva che si trattasse di una causa psicologica ma
sembrava propensa a fingerselo, per stare un po’ tranquilla, qualche mese,
almeno l’estate, leggendo qualche libro, sotto il gelsomino, nel giardino della
sua casa.
Rifeci lo stesso viaggio pochi mesi dopo: da sola, col cielo
grigio carico di pioggia. Lia passata dalla vita alla morte in un istante, in
un ospedale del Nord, per una maledetta analisi. Certo con la non rassegnata
dolcezza e con l’eroica mitezza di chi aveva lottato consapevole che, alla
fine, avrebbe perso.
A Reggio pioveva. Rade gocce, come d’una malinconia
struggente che si vuole il più possibile contenere. La corsa in macchina dalla
stazione alla sua casa. Arrivai proprio mentre il furgone mortuario si fermava
davanti alla porta e la bara, appena giunta in aereo, rientrava per un istante
nella casa della sua fanciullezza.
La folla immensa in chiesa. Fuori, per l’ultimo commiato, un
albero si dondolava, lacrimando sulla bara
rivoli di pioggia sottile e silenziosa, ma all’improvviso si fece uno
squarcio azzurro nel cielo e nuvole
rosse brillarono, poi, fino a notte. L’abbraccio di Nicoletta, la sorella: “Ah,
Maria, tu sai cosa aveva in cuore Lia…”
Sì, io lo so…
Lianella è morta il 2 febbraio del 1979. Qualche anno dopo è
morto anche Piero Ravenna.
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