domenica 4 novembre 2012

D. Grossman: quando l'indicibile si fa poesia



Orfano, si dice di chi ha perso un genitore. Vedovo, di chi ha perso la moglie. Ma per chi perde un figlio non c’è definizione. La lingua si riconosce incapace di declinare in un termine la lacerazione più straziante che possa colpire gli umani.

A sei anni dalla morte del figlio Uri in una delle tante guerre israeliane, David Grossman pubblica Caduto fuori dal tempo: una lunga poesia, un urlo, una corsa nel vento, un girotondo intorno all’angoscia, un’attesa, un'onda che monta e sbatte sulla riva, un silenzio che trova le parole per dirsi.
Trattandosi di un libro non calabrese, logica vorrebbe non se ne desse notizia su Zoomsud. Ma poiché si tratta di un testo che è, per tutti e per chi ha motivi di profonda sofferenza soprattutto, un balsamo di emozioni profonde e vere, non dubito che i nostri lettori comprenderanno il senso di tale eccezione. (Non è certo Grossman che ha bisogno di essere conosciuto, ma la lettura di questo testo di Grossman può far bene a tanti).
 
Un uomo interrompe la cena, si alza, lascia la moglie e inizia un viaggio, verso il mondo “di laggiù”, quello dei morti, che, dal momento della scomparsa del figlio, contiene ormai una parte di lui stesso. Nel suo andare, senza una meta che non sia, appunto, il “laggiù”, attira, come una forza magnetica, altri che hanno esperienze simili: il Duca, fuggito dal palazzo, la riparatrice di reti, il ciabattino, il maestro di matematica, il cronista delle storie cittadine, tutti tesi al punto in cui il mondo dei vivi e dei morti si intrecciano.
 
Ha scritto Grossman, presentando il libro (in Italia su Repubblica con la traduzione di Alessandra Shomroni):
«Ricordo anche di aver pensato (dopo la morte di Uri, ndr) che, se il destino mi aveva mandato in quella terra di esilio, per lo meno avrei cercato di tracciarne una mappa, per quanto possibile e nell'unico modo che ho a disposizione: con la scrittura e il racconto. Avevo la flebile, patetica speranza che attraverso la scrittura avrei potuto trovare qualcosa - un cammino, una fessura, un contatto... Ritenevo di poter ammorbidire, rendere flessibile, far fluire un po' di calore in qualche punto remoto, al limite estremo dell'universo, del nulla assoluto, dell'ermetico.
Oppure, accidentalmente, per puro caso, avrei inventato una frase magica, una sorta di “Apriti Sesamo” che all'improvviso avrebbe incrinato la scorza impenetrabile del nulla e forse allora, per un istante, avrei visto... Naturalmente non ho visto quella “Terra di laggiù”. Però è successa un'altra cosa: l’esperienza dei vivi che toccano la morte, che sono toccati dalla morte, un'esperienza che un tempo mi sembrava sostanzialmente gelida, paralizzante e inanimata, nel corso della scrittura (e forse a causa di essa) si è rivelata complessa e articolata, dinamica e in costante evoluzione, venata di intimità, di nostalgia, di tristezza, di pienezza di vita e di vuoto di vita.
E dal momento in cui ho iniziato a scrivere, le frasi sono affiorate sotto forma di poesia, con il ritmo e il respiro della poesia. Non è stata una scelta. Non è stata una “decisione”. Un attimo prima non sapevo che sarebbe stato così, ma mentre scrivevo le parole arrivavano quasi sempre sotto forma di poesia. Ogni giorno mi sedevo a scrivere prosa, e scaturiva poesia. Perciò ho ca- pito: la poesia è il linguaggio del mio dolore.
Posso solo supporre per quale motivo le cose siano andate così. Forse perché la poesia è più vicina al silenzio. O perché l'impulso di scrivere arrivava quasi sempre insieme a quello di non scrivere e alla sensazione che, se proprio dovevo dire qualcosa, quella cosa doveva essere esile, quasi evanescente: poesia.
Ma queste sono spiegazioni successive, un tentativo di trovare un senso a ciò che probabilmente un vero senso non ha. Quando cerco infatti di capire perché io abbia scritto il libro in questo modo, ricordo soprattutto una sensazione fisica mai provata in precedenza: come se una forza mi piegasse il polso costringendomi a interrompere la frase proprio in quel punto, a metà strofa, a metà di un respiro, e obbligandomi a passare alla riga successiva.
Voglio aggiungere un'altra cosa a proposito della stesura di questo libro: il primo impulso a scriverlo è nato dalla volontà di creare un movimento nella staticità assoluta. Nell'immobilità e nel gelo totale che la morte impone non solo a chi muore ma anche, in un certo senso, a chi soffre per quella morte.
E, ripeto, posso immaginare - soltanto immaginare - di avere cercato non solo delle parole ma anche il modo con cui quelle parole divenissero movimento. Di aver cercato un ritmo che mi desse la sensazione di potermi ancora muovere, di essere libero dinanzi a ciò che minacciava di paralizzarmi e pietrificarmi.
(…)
Ecco cosa mi ha dato la scrittura: la sensazione di non essere una vittima passiva e impotente di ciò che è accaduto. Ovviamente non potrò cancellare il passato e non potrò riportare in vita il mio caro e neppure far muovere nulla in lui. Ma non sarò paralizzato e immobile contro l'arbitrio che mi ha colpito. E un'altra cosa ho imparato in questi anni: in certe situazioni l'unica libertà che ha un uomo è quella di formulare la propria storia con le proprie parole, non con quelle dettate da altri.
So quanto sia piccolo l'atto creativo dinanzi alla morte. Quanto l'impulso di creare, inventare, immaginare, insistere a cercare la parola giusta, l'unica, sia senza speranza. E, in generale, so quanto sia fragile l'illusione umana che questo sforzo di precisione abbia un qualche significato "obiettivo" in un mondo indifferente, arbitrario e inspiegabile.
Eppure, mentre scrivevo, avevo spesso la sensazione che se avessi trovato la parola giusta avrei in qualche modo compiuto una piccola riparazione; avrei creato un luogo - o addirittura una casa - per me e forse anche per chi leggerà il libro, in un mondo divenuto quasi interamente terra di esilio.
Del risultato finale, del libro terminato come opera che va incontro al suo destino, testimonieranno gli altri. Io posso solo dire che mentre lavoravo a questo libro sentivo - in contrasto con le circostanze in cui è stato scritto - di essere fortunato perché potevo dare a tutto “questo” parole».
 
Il libro, pubblicato da Mondadori alla fine di ottobre ha in copertina una foto (nell'immagine in alto un particolare) del fotografo ligure Guglielmo De Luigi, scattata nella regione del Devon e scelta dallo scrittore come complemento ideale per una delle sue opere più complesse.
 
L’unico libro che ho letto quest’anno per cui mi sentirei di spendere la definizione: “Necessario”.
 

Nessun commento:

Posta un commento