Quante parole italiane poteva conoscere una bambina della periferia campagnola di Reggio, all’inizio degli anni cinquanta, nel suo primo lustro di vita? Non saprei quantificarle, ma certo non dovevano essere tantissime.
Eppure conoscevo il termine: poliomelite. Pronunciato, dagli adulti di casa, in un soffio, con le lacrime agli occhi e le spalle incurvate dalla mannaia che aveva già falciato il bel bambino biondo della cugina ‘N. e stava per portare via anche il suo secondogenito. Un senso di oscura minaccia, di inquietante impotenza, che scomparve qualche anno dopo col vaccino preso insieme ad uno zuccherino e il conseguente, successivo, inserimento nel mio pantheon ideale, di Sabin, il cui nome mi suscita ancora un sentimento di devota ammirazione.
La polio – l’orrore di un’epidemia che, negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, ha mietuto decine di migliaia di vittime bambine in America – è la coprotagonista dell’ultimo libro di Philip Roth. Appena qualche giorno fa il suo editore ha confermato che il grande scrittore americano – per moltissimi il più grande tra i viventi, incomprensibilmente non premiato (ancora) col Nobel – ha riposto carta e penna, come aveva annunciato dopo l’uscita di Nemesi:
«Ho dedicato la mia vita al romanzo: li ho studiati, ho insegnato, ho scritto e ho letto. Con l’esclusione di quasi tutto il resto. Il troppo stroppia. Non mi sento più legato a questo fanatismo di dover scrivere che ho sperimentato durante la mia vita. Non credo che un libro in più o un libro in meno possa cambiare la sostanza di quanto ho già lasciato. Se scrivessi un nuovo libro sarebbe sicuramente un fallimento. Chi mai vorrebbe leggere un libro mediocre? Alla fin della vita il pugile Joe Louis l'aveva detto: ho fatto il meglio che potevo. Avrei detto lo stesso del mio lavoro. Ho fatto anch’io del mio meglio».
Protagonista di Nemesi è Eugene Cantor, detto Bucky, un ragazzo ebreo, forte e coraggioso, che, per un grave difetto della vista, non è stato arruolato, come avrebbe fortemente voluto, nell’esercito che sta combattendo contro i nazisti. Bucky svolge con passione il suo compito di istruttore atletico dei campi estivi dei ragazzini di un quartiere della sua cittadina, Newark, finché si trova a dover combattere in una guerra ancora più sporca e odiosa: quella contro la polio che attacca, a tradimento, i suoi piccoli allievi. La sua incapacità di resistere fino in fondo e il terrore di essere stato tramite di contagio con altri ragazzi, prima di essere lui stesso devastato dal male, sconvolge la sua vita inducendolo a rinunciare a qualsiasi forma di conforto affettivo e a espiare per sempre la sua “colpa”.
Ha scritto Asor Rosa che, in Nemesi, «Roth abbassa e restringe il suo orizzonte, semplifica le sue descrizioni e le sue psicologie, la natura e il dramma dei suoi personaggi» e che la sua capacità «pirandelliano-shakespeariana, di giocare sui diversi punti di vista, s'impone ancora una volta con evidenza esemplare, struggente pietà e impietosa ferocia».
Un libro sulla vita e sulla morte, sul groviglio di scelte individuali (davvero libere?) che si compongono in drammi sociali e, di nuovo, in tragedie personali, un urlo contro Dio – che, a tratti, più che ad un assoluto ateismo, sembra vicino ad un giobbiano chiedere conto all’Altissimo, accusandolo di inumana crudeltà, dell’insopportabilità di una sofferenza che riguardi gli innocenti e, soprattutto, i bambini – che lascia, come tutti i libri belli e di spessore, con un nodo alla gola: e, quasi, il desiderio di un pianto silenzioso che sciolga la parte più emergente delle emozioni tratte dalla lettura, lasciando a quelle più profonde il tempo e il modo di depositarsi nella propria vita.
Non è l’aspetto fondamentale del libro, ma, onestamente, mi ha colpito molto un particolare. E, ancora di più, la mia reazione al particolare.
Tra gli untori considerati possibili – in una fase in cui, non essendoci certezze mediche, la polio veniva fatta risalire, soprattutto da padri e madri in apprensione, a cause di ogni genere – per ben 23 volte si fa riferimento a dieci “teppisti italiani”, dai quindici ai diciotto anni, che, tutti tronfi, sputano tutto intorno al campo giochi di Weequahic con l’obiettivo di “contagiare gli ebrei con la polio”.
Fino alla fine del libro, mi sono chiesta se quel termine,’”italiani”, sarebbe stato, ad un certo punto, ulteriormente specificato. Per esempio, in “calabresi” (che erano in tantissimi, anche se non i soli, in quel periodo, in America). Naturalmente, no.
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