lunedì 17 agosto 2020

W il Ginnasio (dei miei tempi)

 

Tutto quello che so l’ho imparato al ginnasio. Non le conoscenze, accumulate e/o disperse nel corso della vita, ma proprio la capacità di apprendere. Di stare seduta, alle prese con un libro, per un numero illimitato di ore e, per un numero altrettanto illimitato di ore, fare esercizi di analisi logica e del periodo, ripetere regole di latino e greco, migliaia e migliaia di frasi con l’aoristo o l’ablativo assoluto. Imparare, per sempre, che, da un certo punto in poi, imparare è fatica e anche sofferenza: ma fatica e sofferenza che hanno in sé una felicità lucente.

Non ricordo molto di quei due anni. Il primo giorno, quand’eravamo tutti nel grande cortile e mamo mano ci chiamavano secondo la sezione, per me la B, ci fu una pioggia torrenziale. E prima di Natale la classe si ridusse di almeno un terzo: non furono poche quelle che rinunciarono ad un ritmo di studio tanto faticoso. Era il primo anno che si arrivava al ginnasio senza aver studiato latino e l’accoppiata latino e greco, affrontata, dai prof, come se avessimo competenze di cui eravamo prive (anche al superiore, come in precedenza, le classi erano rigorosamente distinte tra femminili e maschili, anche se al Tommaso Campanella qualche classe mista c’era), fu micidiale. Non c’era giorno che non avessimo, talvolta per tutte le ore, la prof Catanoso (Italiano, Latino, Greco, Storia e Geografia). Piccola, graziosa, sempre infreddolita (teneva in classe il visone anche scrivendo alla lavagna) procedeva come un carro armato verso l’obiettivo del programma svolto tutto e bene. Fu lei a raccontarci di Nausica dalle bianche braccia e fu lei a farci fare decine e decine di temi su Manzoni (compresi: i bambini nei Promessi Sposi e gli orti nei Promessi Sposi). Qualche giorno prima degli esami (faccio parte dell’ultima annata che ha fatto esami di passaggio tra ginnasio e liceo) versai lacrime di feroce dolore per l’uccisione di Robert Kennedy e lacrime di feroce dolore versai poco più di due mesi dopo per la fine della primavera praghese di Dubcek.

Il tempo, tutto quel tempo, è stato studio. Avvertivo lo studio come il mio dovere assoluto. Che non ammetteva pause per stanchezza, mal di testa (terribili e continui: vivevo in permanenza con in capa un foulard che me la teneva almeno stretta, evitando che la costante sensazione di scoppio la frantumasse in mille pezzi), dolori alle ossa sottoposte a una postura punitiva.

Dopo il ginnasio, continuarono le ore illimitate di studio, i mal di testa senza requie, i dolori alle ossa. Ma imparare non fu più una scalata impervia, ma zigzagare su immense praterie: faticose per la vastità del percorso, per l’irraggiungibilità dell’orizzonte, ma, in fondo, percorribili.

Nei primi due anni ebbi come insegnante di Italiano il prof Fici. Il primo giorno, ci fece fare un tema; quando tornò in classe, teatralmente, ridusse i nostri fogli a coriandoli e ordinò: prendere un quaderno e scrivete e dettò le regole cui attenersi per rispondere alla traccia. Il meraviglioso prof. Barresi, grassoccio, gli occhi vivi, sdentato, camminava tra i banchi recitando, metricamente, versi latini e greci. Il prof Infortuna era un avvocato, che ci insegnava Filosofia: lo definimmo “In estasi con l’Uno” perché aveva una passione per Plotino. Venne poi sostituito dal prof Fiorentino che provava a convincerci dell’importanza, non so più in quale battaglia, della presenza di navi “dai fianchi corazzati”.

Avevamo studiato tanto negli anni del ginnasio che superammo, indenni, anche un terzo liceo passato per lungo tempo a casa, per via dei moti reggini del Boia di molla e, per il resto, con i militari che presidiavano le nostre aule, il nostro ingresso e uscita dal liceo. Nelle lunghe settimane in cui rimanemmo a casa scrissi anche dei versi (bruciati), che più o meno dicevano: Di questi giorni non ricorderò che i mandorli rosati.

Uscii dal Tommaso Campanella sapendo che le mie conoscenze (quelle che mi aveva dato la scuola e quelle che mi ero fatta da me leggendo e ancora leggendo: saggi, romanzi, poesie) erano pari, se non superiori, a quelle dei diplomati dei più noti licei di Roma e Milano anche se, nei loro confronti, scontavo l’essere “periferica” mancando di quelle esperienze (il teatro, il cinema, i bar, i circoli in cui vedersi, le nottate) che davano loro sicurezze e patenti di modernità.

Studiare è stata la mia possibilità storica rispetto a tutti i miei avi: uomini e donne. Considerando queste ultime, non sono stata più libera (siamo state tutte, ognuna a suo modo e con la sua testa, persone del nostro tempo) né ho fatto meglio o di più (vale, piuttosto, il contrario). Il discrimine, vasto e profondo come il mare, è stato lo studio.

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