Due cose più di altre avremmo dovuto imparare nei mesi in cui il covid 19 ci ha costretti a casa. (Ma non pare l’abbiamo fatto).
La prima è che siamo tutti nello stesso mare. E se la tempesta “normale” colpisce diversamente chi sta su una zattera e chi sta su uno yacht, il maremoto affonda tutti. Abbiamo, insomma, un destino che sempre più, in questo rivolgimento della natura (naturale o meno che sia) verso gli uomini, è comune: con tutte le conseguenze di giustizia, uguaglianza, solidarietà che ciò comporta.
La seconda è che è grande virtù saper stare da soli. Che non è vivere isolati e, tantomeno, pensare di farcela da se stessi, senza o anche contro gli altri. Ma è riuscire a stare con i propri pensieri e le proprie emozioni. Con in mano un libro o tinteggiando una parete o piantando il basilico o preparando una marmellata, o mettendo in ordine uno scaffale. Senza schermi di protezione rispetto a se stessi, all’elaborazione e rielaborazione del proprio mondo interiore.
Diceva Blaise Pascal che «tutta l'infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene da soli, in una camera». Questa sarebbe (stata) l’occasione propizia per imparare a permanere con se stessi, da soli, in una stanza (tanto meglio, se in un giardino, su uno scoglio, in un bosco). Sarebbe (ancora) il modo (migliore?) per imparare che dobbiamo stare con gli altri in maniera diversa da come lo siamo stati fino ad ora. Che alla mancata stretta di mano, all’abbraccio assente può corrispondere una profondità di scambio che innesti non chiacchiere ma vita.
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