«Alle quindici si risolse
per una passeggiata in collina, nel terreno rifiutato alla vendita. Ci giunse
in dieci minuti. Desolazione, neanche un cane. Nulla c’era a cui dedicare tempo
o lavoro in quelle lande inutili. Il cielo era lustrato d’azzurro. Ma faceva
freddo, con un venticello che penetrava le ossa. La terra, recintata con una
staccionata rustica, era pianeggiante e pietrosa, e brulla, tranne qualche
quercia da sughero, un po’ di spennacchiati pini marittimi e una fitta e
disordinata macchia di rovi e di giovani castagni con le foglie già ravvivate
dalle tinte morenti dell’autunno. Per un centinaio di metri limitava con un
dirupo, tratti a strapiombo, tratti digradante, di salto in salto, fino alle
scogliere della Costa Viola; dalle pareti a picco sporgevano enormi massi in
equilibrio precario, presto sarebbero precipitati a pavoneggiarsi scogli dentro
le acque. Una contorta e ripida scalinata discendeva assecondando il dorso del
costone. E sfociava su una piazzola sospesa tra cielo e mare, con una vista
spettacolare: il blu cangiante delle acque che s’infrangeva sulla linea di un
orizzonte solo interrotta dalla Sicilia e dalle Eolie, il sole calante, diretto
a inabissarsi nel tratto tra la punta della Sicilia e Vulcano; in basso, lo
schiaffo delle onde nell’abbattersi contro le scogliere o che schiumavano
lunghe nei tratti di spiaggia; a sud, l’Etna che scalava il cielo macchiandolo
di un denso fumo nero estratto dalle viscere della terra e che già s’atteggiava
a nuvola. Si trattenne al limitare dello strapiombo. Il vento entrava a folate.
Gli sagomava la faccia. S’accaniva sugli alberi, spazzolava le erbe, fischiava
lamentevole nel frantumarsi contro il costone. Tutti rumori che nella sua mente
si trasformavano in suoni di vita, e che gli portavano immagini.»
Ovvero ricordi che
aggiungono dolore a dolore. Giorgio Marro è un uomo infelice. La sua esistenza
non è che una sopravvivenza da quando un incidente di moto (un suo regalo) gli
ha portato via il figlio minore, l’amatissimo Luca, trasformato il maggiore,
Enrico, in un tronco senza vita e la moglie, Marta, in un fantasma che passa
tutte le sue giornate in ospedale a cogliere un segno di risveglio che non c’è.
Marro ha lasciato la carriera di avvocato e si è confinato in un ufficio per
non aver «clienti a cui rendere conto, che gli sollecitassero impegni che non
era ormai in grado di adempiere.»
Il rifiuto a vendere la
sua proprietà – richiesta rivolta da Chillè a tutti i possessori di terreni
agricoli della sua zona – rimette in movimento una quotidianità solitaria,
punteggiata quasi solo da visite al cimitero, rari passaggi al reparto
neurolesi e un senso di colpevole difficoltà nei confronti della moglie. Per
averne protezione, Marro torna a trovare un vecchio capo ‘ndrangheta, zì Masi,
di cui era stato difensore in tribunale e per il quale mantiene un rispetto che
sa di stima: «Meglio tanti zi’ Masi che l’anarchia, che le nuove leve che non
rispettavano nulla e nessuno e che avevano il solo orizzonte d’arricchirsi
presto e comunque, spargendo a piene mani sangue, prepotenze, violenza. Ce ne
sarebbero voluti altri di zi’ Masi ora che la Legge la spacciava l’efficienza e
pretendeva eroi armati di coraggio civile e di carta bollata.»
Stima ricambiata, tanto
che zì Masi blocca ogni spinta del nipote contro l’avvocato: «Non è questione
di rispetto e d’amicizia. Anzi, lo è pure e non ti nascondo che preferisco
lasciarlo in santa pace, gli bastano i guai che già ha. Ma non è questo. È che
non c’è medicina per lui. Non c’è niente che gli possiamo opporre. Ad
ammazzarlo, un favore grande gli facciamo. Ad ammazzargli la moglie e il
figlio, gliene facciamo altri due.»
Dietro la richiesta
dell’acquisto dei terreni (invito equivalente ad ordine), c’è proprio l’accordo
tra ‘zi Masi e Ciccio Survara e dei rispettivi figli e nipoti per investire i
soldi della droga in un grande centro turistico: un accordo tra avversari, che
non esitano a diventare, ogni volta che l’interesse lo esige, nemici mortali.
Complici le pubbliche amministrazioni e la sostanziale benevolenza della
cittadinanza.
Marro, quasi ritrovando
un po’ di gusto professionale, cerca di risalire alla trama ordita da vecchia e
nuova ‘ndrangheta, ne ripercorre le articolazioni, finisce col disturbare
equilibri instabili e, nel tentativo di non diventare anche lui vittima, si
schiera con una delle parti in lotta, imbracciando un’arma.
Marzo
per gli agnelli (titolo di grande efficacia, così spiegato
nel testo: «Il vecchio agitò avanti e indietro la mano fascista e “c’è marzo
per gli agnelli” scandì piano. Intendeva che per qualsiasi azione bisogna
attendere il tempo più appropriato, e non era ancora giunto.») è, forse, è il
più nero dei romanzi di Mimmo Gangemi
sulla ‘ndrangheta.
Nel libro, in uscita il
12 febbraio per Piemme, un dramma personale e familiare è calato in un noir in
cui nessuno si salva. Nessun segno di redenzione si contrappone alla brutalità
della nuova ‘ndrangheta, più violenta e priva di qualsiasi elemento di pur solo
esibito valore, all’oscenità dei numerosi
omicidi che costellano la vicenda, alla bruttura di relazioni sessuali in cui
la donna è vissuta, e forse si vive, come «troia», al sotteso senso che non ci
sono alternative al male come, di fatto, non ne hanno gli agnelli a marzo.
Nessun segno di redenzione
se non la scrittura: un altorilievo così fluido da sembrar nascere naturalmente
dalle pagine, a delineare caratteri, a raccontare sogni infranti, speranze che
sono meno di illusioni, i mali e la straordinaria bellezza della Calabria: la ‘ndrangheta
ne esce come cristallizzata nella sua stessa autodistruzione.
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