venerdì 29 marzo 2019

Marzo per gli agnelli di Mimmo Gangemi







«Alle quindici si risolse per una passeggiata in collina, nel terreno rifiutato alla vendita. Ci giunse in dieci minuti. Desolazione, neanche un cane. Nulla c’era a cui dedicare tempo o lavoro in quelle lande inutili. Il cielo era lustrato d’azzurro. Ma faceva freddo, con un venticello che penetrava le ossa. La terra, recintata con una staccionata rustica, era pianeggiante e pietrosa, e brulla, tranne qualche quercia da sughero, un po’ di spennacchiati pini marittimi e una fitta e disordinata macchia di rovi e di giovani castagni con le foglie già ravvivate dalle tinte morenti dell’autunno. Per un centinaio di metri limitava con un dirupo, tratti a strapiombo, tratti digradante, di salto in salto, fino alle scogliere della Costa Viola; dalle pareti a picco sporgevano enormi massi in equilibrio precario, presto sarebbero precipitati a pavoneggiarsi scogli dentro le acque. Una contorta e ripida scalinata discendeva assecondando il dorso del costone. E sfociava su una piazzola sospesa tra cielo e mare, con una vista spettacolare: il blu cangiante delle acque che s’infrangeva sulla linea di un orizzonte solo interrotta dalla Sicilia e dalle Eolie, il sole calante, diretto a inabissarsi nel tratto tra la punta della Sicilia e Vulcano; in basso, lo schiaffo delle onde nell’abbattersi contro le scogliere o che schiumavano lunghe nei tratti di spiaggia; a sud, l’Etna che scalava il cielo macchiandolo di un denso fumo nero estratto dalle viscere della terra e che già s’atteggiava a nuvola. Si trattenne al limitare dello strapiombo. Il vento entrava a folate. Gli sagomava la faccia. S’accaniva sugli alberi, spazzolava le erbe, fischiava lamentevole nel frantumarsi contro il costone. Tutti rumori che nella sua mente si trasformavano in suoni di vita, e che gli portavano immagini.»

Ovvero ricordi che aggiungono dolore a dolore. Giorgio Marro è un uomo infelice. La sua esistenza non è che una sopravvivenza da quando un incidente di moto (un suo regalo) gli ha portato via il figlio minore, l’amatissimo Luca, trasformato il maggiore, Enrico, in un tronco senza vita e la moglie, Marta, in un fantasma che passa tutte le sue giornate in ospedale a cogliere un segno di risveglio che non c’è. Marro ha lasciato la carriera di avvocato e si è confinato in un ufficio per non aver «clienti a cui rendere conto, che gli sollecitassero impegni che non era ormai in grado di adempiere.» 

Il rifiuto a vendere la sua proprietà – richiesta rivolta da Chillè a tutti i possessori di terreni agricoli della sua zona – rimette in movimento una quotidianità solitaria, punteggiata quasi solo da visite al cimitero, rari passaggi al reparto neurolesi e un senso di colpevole difficoltà nei confronti della moglie. Per averne protezione, Marro torna a trovare un vecchio capo ‘ndrangheta, zì Masi, di cui era stato difensore in tribunale e per il quale mantiene un rispetto che sa di stima: «Meglio tanti zi’ Masi che l’anarchia, che le nuove leve che non rispettavano nulla e nessuno e che avevano il solo orizzonte d’arricchirsi presto e comunque, spargendo a piene mani sangue, prepotenze, violenza. Ce ne sarebbero voluti altri di zi’ Masi ora che la Legge la spacciava l’efficienza e pretendeva eroi armati di coraggio civile e di carta bollata.»

Stima ricambiata, tanto che zì Masi blocca ogni spinta del nipote contro l’avvocato: «Non è questione di rispetto e d’amicizia. Anzi, lo è pure e non ti nascondo che preferisco lasciarlo in santa pace, gli bastano i guai che già ha. Ma non è questo. È che non c’è medicina per lui. Non c’è niente che gli possiamo opporre. Ad ammazzarlo, un favore grande gli facciamo. Ad ammazzargli la moglie e il figlio, gliene facciamo altri due.»

Dietro la richiesta dell’acquisto dei terreni (invito equivalente ad ordine), c’è proprio l’accordo tra ‘zi Masi e Ciccio Survara e dei rispettivi figli e nipoti per investire i soldi della droga in un grande centro turistico: un accordo tra avversari, che non esitano a diventare, ogni volta che l’interesse lo esige, nemici mortali. Complici le pubbliche amministrazioni e la sostanziale benevolenza della cittadinanza.

Marro, quasi ritrovando un po’ di gusto professionale, cerca di risalire alla trama ordita da vecchia e nuova ‘ndrangheta, ne ripercorre le articolazioni, finisce col disturbare equilibri instabili e, nel tentativo di non diventare anche lui vittima, si schiera con una delle parti in lotta, imbracciando un’arma.

Marzo per gli agnelli (titolo di grande efficacia, così spiegato nel testo: «Il vecchio agitò avanti e indietro la mano fascista e “c’è marzo per gli agnelli” scandì piano. Intendeva che per qualsiasi azione bisogna attendere il tempo più appropriato, e non era ancora giunto.») è, forse, è il più nero dei romanzi di Mimmo Gangemi sulla ‘ndrangheta. 

Nel libro, in uscita il 12 febbraio per Piemme, un dramma personale e familiare è calato in un noir in cui nessuno si salva. Nessun segno di redenzione si contrappone alla brutalità della nuova ‘ndrangheta, più violenta e priva di qualsiasi elemento di pur solo esibito valore, all’oscenità dei numerosi omicidi che costellano la vicenda, alla bruttura di relazioni sessuali in cui la donna è vissuta, e forse si vive, come «troia», al sotteso senso che non ci sono alternative al male come, di fatto, non ne hanno gli agnelli a marzo.

Nessun segno di redenzione se non la scrittura: un altorilievo così fluido da sembrar nascere naturalmente dalle pagine, a delineare caratteri, a raccontare sogni infranti, speranze che sono meno di illusioni, i mali e la straordinaria bellezza della Calabria: la ‘ndrangheta ne esce come cristallizzata nella sua stessa autodistruzione.

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