sabato 27 ottobre 2018

Le rughe del sorriso di Carmine Abate




«Sì, la conoscevamo in tanti, la nìvura sparita, chi più chi meno; di vista, proprio tutti. Del resto, come si fa a ignorare una giovane così sgargiante, calamitosa? Non era solo per il vestito dai colori accesi che sfoggiava, no, era il suo modo di camminare che ci ricordava certe fimmine nostre di una volta, quando ancora si dobbavano coll’antichi costumi delle feste e, durante le processioni dietro santi o sposi, si muovevano con un passettiìo da proincipesse. In più, lei aveva il sorriso di una bellizza così stralucente che dovevi chiudere gli occhi all’attimo, come davanti al sole appena spontàto dal mare. (…) No, non era un sorriso di compiacimento. A volte sorrideva solo con la bocca, mostrando i denti bianchi e forti, una sensualità inconsapevole che attizzava la voglia di baciarla, mentre i suoi occhi non cambiavano espressione, seguivano traiettorie enigmatiche, che nessuno di noi poteva intercettare.»

Protagonista del nuovo libro di Carmine Abate, Le rughe del sorriso, appena pubblicato da Mondadori, Sahra arriva a Spillace, immaginario paese della Calabria, sede di “seconda accoglienza” «con il primo gruppo di stranieri, che qualcuno ha chiamato “rifugiati e richiedenti asilo”, qualch’altro “profughi e migranti”, inzòmma, al di là delle parole, i più fragili tra chi sbarca sulle spiagge nostre

Un giorno, Sahra scompare dall’ex asilo (inutilizzato per mancanza di bambini) che la ospita insieme agli altri “migranti” (una “e” in meno li distingue da una condizione che Spillace conosce molto bene): vuole ritrovare il fratello Hassan, esperto idrogeologo, arrivato in Italia alcuni anni prima e di cui non si hanno più notizie.

Antonio Cerasa – insegnante di Italiano che lavora presso il centro d’accoglienza e che per Sahra «ha un debole», figlio di Michele il germanese, che aveva passato anni di faticosa emigrazione in Germania, ricavandone i soldi che gli hanno consentito di fabbricare una grande casa ormai vuota (l’altro figlio è emigrato a Nord e con lui si è trasferita anche la madre) – si mette alla sua ricerca.

Tra i racconti, spezzettati, della cognata di Sahra, Faaduma – «una giovane donna dal corpo pingue e tozzo, la faccia tonda senza una ruga», che ha una bambina Maryan molto somigliante alla zia – e i lunghi giri di Antonio Cerasa per la Calabria, nel romanzo di Abate scorre il presente che unisce le due rive del Mediterraneo: da una parte la tragedia della guerra per bande in Somalia, ex colonia d’Italia, la fatica di stremanti spostamenti in Africa, l’orrore delle prigioni libiche e dall’altra la vita difficile, troppo spesso povera di lavoro e di dignità, dei migranti arrivati in Sicilia e in Calabria con in mezzo angosciosi viaggi per mare e avventurosi approdi.

Emerge, in molte sfaccettature, quell’inferno contemporaneo in cui il senso d’umanità e i principi minimi della dignità umana vengono più volte e in diversi modi calpestati, ma s’intravvedono anche i segni di novità che faticosamente si fanno strada. Come il villaggio di Ayuub, dove gli orfani che Maana Suldaan, principessa figlia del sultano, raccoglieva in giro per il paese, «erano cresciuti sani e istruiti», l’infibulazione era diventata un rito puramente simbolico e si spingevano anche le ragazze a frequentare l’Università di Mogadiscio. E come i ponti tra popoli e civiltà che certe organizzazioni, tra cui l’associazione Acqua per la vita di Trento, provano a costruire.

Carmine Abate non edulcora le atrocità del presente (esemplare la descrizione degli stupri: strumento di potere di clan ed etnie rivali e, sempre, intollerabile sopraffazione di maschi sulle donne) ma non nasconde nessun segno di umana gentilezza: dalla bambola che la nonna ha cucito per Maryan, sua amica e confidente, sua luce anche nei momenti più bui al cesto di fichi saporosi che la madre di Antonio fa avere ai migranti.

Libro sapientemente costruito (l’autore dice che gli sono voluti tre anni di lavoro), con un doppio racconto, quello di Faaduna ad Antonio e quello di Antonio al narratore, ricco di personaggi e di eventi non facilmente dimenticabili, di intrigante e scorrevole lettura mostra come la narrativa, quando è capace di entrare con immediatezza nella Storia, possa essere, insieme, bellezza e impegno civile. Non per nulla, Abate, inserisce, nei ringraziamenti, una frase di Alessandro Leogrande: «Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.»

Le rughe del sorriso arriva in libreria mentre è ancora sulle prime pagine il caso Riace. Leggerlo è sapere con la mente e con il cuore (far vivere dall’interno esperienze anche lontane è il miracolo della letteratura) molto di più sia di chi in Calabria arriva dall’Africa che sulla Calabria che accoglie: tra aperture e paure, tra contraddizioni e difficoltà, e mentre tanti calabresi continuano ad emigrare: in condizioni diverse, ma, in fondo, come è toccato ai loro nonni e ai loro padri.

Pubblicato su Zoomsud: 




Nessun commento:

Posta un commento