«Sì,
la conoscevamo in tanti, la nìvura sparita, chi più chi meno; di vista, proprio
tutti. Del resto, come si fa a ignorare una giovane così sgargiante,
calamitosa? Non era solo per il vestito dai colori accesi che sfoggiava, no,
era il suo modo di camminare che ci ricordava certe fimmine nostre di una
volta, quando ancora si dobbavano coll’antichi costumi delle feste e, durante
le processioni dietro santi o sposi, si muovevano con un passettiìo da
proincipesse. In più, lei aveva il sorriso di una bellizza così stralucente che
dovevi chiudere gli occhi all’attimo, come davanti al sole appena spontàto dal
mare. (…) No, non era un sorriso di compiacimento. A volte sorrideva solo con
la bocca, mostrando i denti bianchi e forti, una sensualità inconsapevole che
attizzava la voglia di baciarla, mentre i suoi occhi non cambiavano
espressione, seguivano traiettorie enigmatiche, che nessuno di noi poteva
intercettare.»
Protagonista del nuovo
libro di Carmine Abate, Le rughe del
sorriso, appena pubblicato da Mondadori, Sahra arriva a Spillace,
immaginario paese della Calabria, sede di “seconda accoglienza” «con il primo gruppo di stranieri, che qualcuno ha chiamato
“rifugiati e richiedenti asilo”, qualch’altro “profughi e migranti”, inzòmma,
al di là delle parole, i più fragili tra chi sbarca sulle spiagge nostre.»
Un giorno, Sahra scompare
dall’ex asilo (inutilizzato per mancanza di bambini) che la ospita insieme agli
altri “migranti” (una “e” in meno li distingue da una condizione che Spillace
conosce molto bene): vuole ritrovare il fratello Hassan, esperto idrogeologo, arrivato
in Italia alcuni anni prima e di cui non si hanno più notizie.
Antonio Cerasa –
insegnante di Italiano che lavora presso il centro d’accoglienza e che per Sahra «ha un debole», figlio di Michele il germanese, che
aveva passato anni di faticosa emigrazione in Germania, ricavandone i soldi che
gli hanno consentito di fabbricare una grande casa ormai vuota (l’altro figlio
è emigrato a Nord e con lui si è trasferita anche la madre) – si mette alla sua
ricerca.
Tra i racconti,
spezzettati, della cognata di Sahra, Faaduma – «una giovane
donna dal corpo pingue e tozzo, la faccia tonda senza una ruga», che ha
una bambina Maryan molto somigliante alla zia – e i lunghi giri di Antonio
Cerasa per la Calabria, nel romanzo di Abate scorre il presente che unisce le
due rive del Mediterraneo: da una parte la tragedia della guerra per bande in
Somalia, ex colonia d’Italia, la fatica di stremanti spostamenti in Africa, l’orrore
delle prigioni libiche e dall’altra la vita difficile, troppo spesso povera di
lavoro e di dignità, dei migranti arrivati in Sicilia e in Calabria con in
mezzo angosciosi viaggi per mare e avventurosi approdi.
Emerge, in molte
sfaccettature, quell’inferno contemporaneo in cui il senso d’umanità e i
principi minimi della dignità umana vengono più volte e in diversi modi
calpestati, ma s’intravvedono anche i segni di novità che faticosamente si
fanno strada. Come il villaggio di Ayuub, dove gli orfani che Maana Suldaan,
principessa figlia del sultano, raccoglieva in giro per il paese, «erano cresciuti sani e istruiti», l’infibulazione era
diventata un rito puramente simbolico e si spingevano anche le ragazze a
frequentare l’Università di Mogadiscio. E come i ponti tra popoli e civiltà che
certe organizzazioni, tra cui l’associazione Acqua per la vita di Trento,
provano a costruire.
Carmine Abate non
edulcora le atrocità del presente (esemplare la descrizione degli stupri:
strumento di potere di clan ed etnie rivali e, sempre, intollerabile sopraffazione
di maschi sulle donne) ma non nasconde nessun segno di umana gentilezza: dalla
bambola che la nonna ha cucito per Maryan, sua amica e confidente, sua luce
anche nei momenti più bui al cesto di fichi saporosi che la madre di Antonio fa
avere ai migranti.
Libro sapientemente
costruito (l’autore dice che gli sono voluti tre anni di lavoro), con un doppio
racconto, quello di Faaduna ad Antonio e quello di Antonio al narratore, ricco
di personaggi e di eventi non facilmente dimenticabili, di intrigante e scorrevole
lettura mostra come la narrativa, quando è capace di entrare con immediatezza
nella Storia, possa essere, insieme, bellezza e impegno civile. Non per nulla,
Abate, inserisce, nei ringraziamenti, una frase di Alessandro Leogrande: «Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno
spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per
terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle,
come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.»
Le
rughe del sorriso arriva in libreria mentre è ancora sulle
prime pagine il caso Riace. Leggerlo
è sapere con la mente e con il cuore (far vivere dall’interno esperienze anche
lontane è il miracolo della letteratura) molto di più sia di chi in Calabria
arriva dall’Africa che sulla Calabria che accoglie: tra aperture e paure, tra
contraddizioni e difficoltà, e mentre tanti calabresi continuano ad emigrare:
in condizioni diverse, ma, in fondo, come è toccato ai loro nonni e ai loro
padri.
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