Scesa dal treno regionale che seguiva la costa, Lidia si
fermò per un attimo come stordita nella piazza della stazione. Gli occhi
annebbiati, la testa vuota e la sensazione di nausea che le saliva in gola,
provò a tirare un sospiro lungo e, per quanto incerta, si incamminò verso
sinistra.
C’erano costruzioni nuove, anche la discesa verso il mare era
stata modificata, ma non le fu difficile ritrovare il piccolo albergo di cui
ricordava i balconcini per ogni stanza, tante cupolette affacciate sulle onde.
Salì nella camera che aveva prenotato, giusto il tempo di posare il piccolo
trolley, si lavò solo le mani e riscese.
Avevano fatto lavori anche sul lungomare e grossi massi erano
stati posti nell’acqua per fermare l’erosione della costa. Il sole cominciava a
scendere al là delle montagne e l’aria era pregna di odori conosciuti. Si
accorse che il suo sguardo si faceva via via più selettivo. Non vedeva i canali
di scolo che continuavano a scendere verso l’acqua di apparente, totale,
limpidezza né le costruzioni sul mare che l’egoismo di alcuni e l’insipienza e
la complicità di altri avevano consentito e neppure gli scheletri di mura che
interrompevano il dolce declinare delle colline. Non aveva occhi e naso e
orecchie se non per i riflessi di luce, che giocavano sulle onde e si
rifrangevano sui residui di vegetazione sul bagnasciuga e sulla stradina che
stava percorrendo: gelsomini, buganvillee, alberi di melograni dai frutti
rigogliosi.
Le inferriate – che imprigionavano la spiaggia e il mare dove
lei ricordava il canneto fitto in cui non solo le ragazze ma anche donne di età
cambiavano il costume bagnato e la sabbia bianca e fine del bagnasciuga – la
ricoprirono d’un sudore freddo. Le gambe provavano un doppio, contraddittorio,
impulso: girarsi e tornare rapidamente indietro e, insieme, andare avanti, anzi:
affrettarsi ad andare avanti verso il
luogo.
Da trenta anni, tutte le sue energie, giorno e notte, erano
imprigionate in quello spazio, in un ferma-immagine che le aveva gelato la
vita. Eppure, ebbe qualche difficoltà ad accorgersi di essere proprio là. E non
tanto per i due cubi di cemento – ci voleva coraggio o assoluta mancanza di
senso estetico a chiamarle case – disposti agli orli della caletta, uno a
destra l’altro a sinistra. Quanto perché il suo corpo e la sua mente provarono
una simultanea riluttanza a entrare nella vertigine in cui, un attimo dopo, si
trovarono. Ebbe la sensazione netta di non essere in grado di controllare nulla
di se stessa, né reazioni fisiologiche né sconquasso dell’anima.
Una sera qualsiasi di inizio settembre, col mare quieto e la
temperatura alta, ancora in vacanza dalla scuola, Filly con i suoi amici aveva
organizzato un falò sulla spiaggia. In due occasioni i falò erano un’abitudine.
Quelli per la notte di San Giovanni, che si svolgevano lungo i torrenti e cui
partecipavano solo ragazzi e quelli di Ferragosto, sul mare, con i ragazzi che
trascinavano rami e pezzi di legno e le ragazze che si preoccupavano delle
cibarie, con l’immancabile anguria messa a rinfrescare in un piccolo pozzo
scavato ad un passo dall’ultima onda. Quel falò era un di più, un capriccio di
Filly, che era riuscita a convincere Giovanni, che le faceva gli occhi dolci da
un bel po’ e Giovanni aveva convinto il suo amico Giuseppe e Giuseppe Matteo e
Matteo sua sorella Lina e Lina la cugina Teresa e Teresa suo fratello Luigi.
Era stata una serata allegra, di baldoria complice e innocente, poi s’erano
sfrenati in giochi e corse. Filly s’era avvicinata troppo al fuoco, la sua
camicetta di cotone bianco con le maniche a palloncino aveva preso fuoco e la
vampa s’era avventata sui capelli lunghi e sottili di grano maturo, che le
arrivavano all’attaccatura delle gambe. Tonnellate d’acqua erano lì, a
disposizione, ma rimasero inutili, a mormorare leggere mentre la luna riluceva
tranquilla.
La morte di sua sorella aveva trascinato con sé, nel giro dei
successivi cinque anni, anche il padre e la madre. Lidia, che si trovava a
studiare medicina in una città del Nord, aveva lasciato l’università e s’era
trovata un lavoro in un laboratorio di pasticceria. Aveva sempre amato fare i
dolci, unendo tradizione e novità: nell’impastare, decorare, infornare, si
estraniava da ogni cosa trovando in sé un nucleo solido e impassibile. La
proprietaria del laboratorio – una vedova dal carattere energico ed entusiasta,
i cui figli avevano impieghi pubblici in altre città – le voleva bene e,
sebbene fossero diventate amiche, non aveva mai cercato di forzare lo schermo
dentro cui si proteggeva.
Lidia non era più tornata al suo paese, ma ora, ricevuta una
ricca proposta di vendita della sua vecchia casa, s’era risoluta ad affrontare
un viaggio di cui molto temeva i contraccolpi. Sperava di ottenere sufficiente
denaro non solo per rilevare il laboratorio ma anche per completare il
pagamento del mutuo della piccola abitazione che aveva acquistato a pochi
isolati dalla sua attività lavorativa. La consolava pensare di poter fissare
così, tra “casa e bottega” il resto della sua vita.
Immobile davanti a quella caletta, gelida e bollente come
avesse la febbre alta, Lidia s’accorse all’improvviso che il sole era
tramontato e s’era alzato un vento leggero. Nello stesso istante, si sentì
morire in ogni punto del suo corpo, mente e anima compresi, e rinascere.
Non continuò a camminare verso la casa che stava poco
lontano, subito dopo il ponte, ma tornò indietro verso il suo alberghetto. Il
sole era sceso dietro le montagne siciliane, lasciando, sul loro profilo,
struggenti sfumature rosa-viola. Pensò a tutte le storie che, da ragazza,
s’inventava su Fata Morgana. E le tornarono in mente immagini che pensava
d’aver dimenticato: le nonne che lavavano a mare la lana di cuscini e materassi
e la stendevano al sole sulla spiaggia, le pecore che a sera rifacevano la
strada verso l’ovile passando dalla spiaggia dietro ‘mpari ‘Ntoni e il cane
Lupo, le barche colme di costardelle, ‘mpari Bastiano che rammendava le reti, le
aguglie che di notte saltavano nell’acqua.
Non aveva fame. Prese solo un caffèlatte con dei biscotti.
Fece una doccia e si fermò in piedi, dietro la finestra a guardare il mare. Le
scarse luci della strada non riuscivano a illuminare il buio sempre più fitto.
Il rumore delle onde la inquietava e la placava nello stesso tempo. Riuscì a
mettersi sul letto solo alle prime luci dell’alba, quando, sebbene non ci
avesse proprio pensato, aveva ormai preso una decisione. La casa non l’avrebbe
venduta: un giorno o l’altro, non poteva che tornare là.
Questo è il racconto che ho
letto stasera per l’incontro su Pellaro e il
mare, organizzato dalla Pro Loco Reggio Sud negli spazi del NewKiteZone,
cui ho avuto il piacere di intervenire insieme a Giuseppe Laganà, che ha
recitato alcune sue poesie tratte del volume Alchimie. Nel corso dell’incontro, concluso con degustazione di
vino di Pellaro e stuzzichini preparati dalla signore delle famiglie Laganà -
Coppola – la presidente della Pro Loco, Concetta Romeo, ha parlato dell’esigenza
della cura del territorio e Agostino Martino ha sottolineato come il vento di
Pellaro possa diventare una notevole ricchezza per tutta la città.
La lettura delle poesie e del racconto è stata preceduta da questa mia piccola introduzione:
Diceva Predrag
Matvejevic, autore di quel Pane nostro che
è uno dei libri fondamentali per conoscere la civiltà del Mediterraneo, che «la Calabria è una terra strana, in realtà è quasi un’isola,
una passerella alta e stretta tra due mari, un bivio che prepara la strada
verso il Mediterraneo profondo, il salto verso la Sicilia. È una terra di
confine, uno di questi posti che viene sempre prima o appena dopo che ci si
lascia tutto alle spalle. Ma il mare da voi è più vicino alla terra che in
tutto il resto d’Italia, e quasi ti viene incontro da tutti i lati, è vicino a
tutto, ha qualcosa di dilagante, inarginabile, è il Mediterraneo che illumina
anche le montagne, che porta il sale delle onde fin dentro ai boschi, alla
grandezza della Sila. Mi piace la Calabria. Sempre dove c’è più mare c’è più
luce, c’è più vita, e c’è più disordine. Per me conta molto, è importante il
disordine. È una cosa salutare.»
Il mare di Pellaro –
territorio in gran parte collinare – è colmo di Storia e di storie.
In questa conca, i Greci
– sbarcati poco più a Nord, nella zona dell’attuale Calopinace – hanno portato
la civiltà degli olivi e dei mandorli. Qui, all’incirca presso l’insenatura di
Occhio, hanno trovato porto sicuro le navi romane dedite ai traffici con
l’Oriente (e più di un comandante, sceso sulla terraferma, avrà comprato, per
la sua casa, una lucerna di terracotta). Dal sito archeologico di Occhio – inaugurato
in pompa magna qualche anno fa e incredibilmente lasciato in stato di degrado –
provengono reperti, in particolare bellissime anfore, esposte al Museo
Archeologico di Reggio
Qui sono arrivati gli
ebrei che ci hanno insegnato l’arte della seta e non tanto lontano da qui è
sbarcato san Paolo. Qui sono apparsi i pirati turchi, lasciando memorie di
lacrime e spaventi e sono giunti, in ghingheri, gli alti funzionari dei viceré
spagnoli. In questa costa, tra Fossa San Giovanni e San Gregorio, sostò la
flotta che avrebbe sostenuto la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571). Da qui è
passato Garibaldi. Qui il mare si è alzato in onde alte tredici metri che, con
folle violenza, hanno aggiunto catastrofe alla catastrofe del grande terremoto
del 1908. E proprio qui, nei primi giorni del settembre 1943, dalle navi da
guerra americane si sono mossi verso terra gli anfibi, carichi di cibo,
segnando, per questi luoghi, la fine della guerra e l’inizio della libertà.
Giuseppe ed io non
affronteremo la grande storia, ma racconteremo emozioni personali, lui con le
sue poesie ed io con un racconto che è immaginario, ma ha un nucleo reale, la
morte, una ventina di anni fa, di una ragazza, cui mi piace rendere omaggio.
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