venerdì 24 agosto 2018

Filly e il mare che non bastò: un racconto per Pellaro e il mare





Scesa dal treno regionale che seguiva la costa, Lidia si fermò per un attimo come stordita nella piazza della stazione. Gli occhi annebbiati, la testa vuota e la sensazione di nausea che le saliva in gola, provò a tirare un sospiro lungo e, per quanto incerta, si incamminò verso sinistra.

C’erano costruzioni nuove, anche la discesa verso il mare era stata modificata, ma non le fu difficile ritrovare il piccolo albergo di cui ricordava i balconcini per ogni stanza, tante cupolette affacciate sulle onde. Salì nella camera che aveva prenotato, giusto il tempo di posare il piccolo trolley, si lavò solo le mani e riscese. 

Avevano fatto lavori anche sul lungomare e grossi massi erano stati posti nell’acqua per fermare l’erosione della costa. Il sole cominciava a scendere al là delle montagne e l’aria era pregna di odori conosciuti. Si accorse che il suo sguardo si faceva via via più selettivo. Non vedeva i canali di scolo che continuavano a scendere verso l’acqua di apparente, totale, limpidezza né le costruzioni sul mare che l’egoismo di alcuni e l’insipienza e la complicità di altri avevano consentito e neppure gli scheletri di mura che interrompevano il dolce declinare delle colline. Non aveva occhi e naso e orecchie se non per i riflessi di luce, che giocavano sulle onde e si rifrangevano sui residui di vegetazione sul bagnasciuga e sulla stradina che stava percorrendo: gelsomini, buganvillee, alberi di melograni dai frutti rigogliosi.

Le inferriate – che imprigionavano la spiaggia e il mare dove lei ricordava il canneto fitto in cui non solo le ragazze ma anche donne di età cambiavano il costume bagnato e la sabbia bianca e fine del bagnasciuga – la ricoprirono d’un sudore freddo. Le gambe provavano un doppio, contraddittorio, impulso: girarsi e tornare rapidamente indietro e, insieme, andare avanti, anzi: affrettarsi ad andare avanti verso il luogo.

Da trenta anni, tutte le sue energie, giorno e notte, erano imprigionate in quello spazio, in un ferma-immagine che le aveva gelato la vita. Eppure, ebbe qualche difficoltà ad accorgersi di essere proprio là. E non tanto per i due cubi di cemento – ci voleva coraggio o assoluta mancanza di senso estetico a chiamarle case – disposti agli orli della caletta, uno a destra l’altro a sinistra. Quanto perché il suo corpo e la sua mente provarono una simultanea riluttanza a entrare nella vertigine in cui, un attimo dopo, si trovarono. Ebbe la sensazione netta di non essere in grado di controllare nulla di se stessa, né reazioni fisiologiche né sconquasso dell’anima. 

Una sera qualsiasi di inizio settembre, col mare quieto e la temperatura alta, ancora in vacanza dalla scuola, Filly con i suoi amici aveva organizzato un falò sulla spiaggia. In due occasioni i falò erano un’abitudine. Quelli per la notte di San Giovanni, che si svolgevano lungo i torrenti e cui partecipavano solo ragazzi e quelli di Ferragosto, sul mare, con i ragazzi che trascinavano rami e pezzi di legno e le ragazze che si preoccupavano delle cibarie, con l’immancabile anguria messa a rinfrescare in un piccolo pozzo scavato ad un passo dall’ultima onda. Quel falò era un di più, un capriccio di Filly, che era riuscita a convincere Giovanni, che le faceva gli occhi dolci da un bel po’ e Giovanni aveva convinto il suo amico Giuseppe e Giuseppe Matteo e Matteo sua sorella Lina e Lina la cugina Teresa e Teresa suo fratello Luigi. Era stata una serata allegra, di baldoria complice e innocente, poi s’erano sfrenati in giochi e corse. Filly s’era avvicinata troppo al fuoco, la sua camicetta di cotone bianco con le maniche a palloncino aveva preso fuoco e la vampa s’era avventata sui capelli lunghi e sottili di grano maturo, che le arrivavano all’attaccatura delle gambe. Tonnellate d’acqua erano lì, a disposizione, ma rimasero inutili, a mormorare leggere mentre la luna riluceva tranquilla.

La morte di sua sorella aveva trascinato con sé, nel giro dei successivi cinque anni, anche il padre e la madre. Lidia, che si trovava a studiare medicina in una città del Nord, aveva lasciato l’università e s’era trovata un lavoro in un laboratorio di pasticceria. Aveva sempre amato fare i dolci, unendo tradizione e novità: nell’impastare, decorare, infornare, si estraniava da ogni cosa trovando in sé un nucleo solido e impassibile. La proprietaria del laboratorio – una vedova dal carattere energico ed entusiasta, i cui figli avevano impieghi pubblici in altre città – le voleva bene e, sebbene fossero diventate amiche, non aveva mai cercato di forzare lo schermo dentro cui si proteggeva.

Lidia non era più tornata al suo paese, ma ora, ricevuta una ricca proposta di vendita della sua vecchia casa, s’era risoluta ad affrontare un viaggio di cui molto temeva i contraccolpi. Sperava di ottenere sufficiente denaro non solo per rilevare il laboratorio ma anche per completare il pagamento del mutuo della piccola abitazione che aveva acquistato a pochi isolati dalla sua attività lavorativa. La consolava pensare di poter fissare così, tra “casa e bottega” il resto della sua vita.

Immobile davanti a quella caletta, gelida e bollente come avesse la febbre alta, Lidia s’accorse all’improvviso che il sole era tramontato e s’era alzato un vento leggero. Nello stesso istante, si sentì morire in ogni punto del suo corpo, mente e anima compresi, e rinascere.

Non continuò a camminare verso la casa che stava poco lontano, subito dopo il ponte, ma tornò indietro verso il suo alberghetto. Il sole era sceso dietro le montagne siciliane, lasciando, sul loro profilo, struggenti sfumature rosa-viola. Pensò a tutte le storie che, da ragazza, s’inventava su Fata Morgana. E le tornarono in mente immagini che pensava d’aver dimenticato: le nonne che lavavano a mare la lana di cuscini e materassi e la stendevano al sole sulla spiaggia, le pecore che a sera rifacevano la strada verso l’ovile passando dalla spiaggia dietro ‘mpari ‘Ntoni e il cane Lupo, le barche colme di costardelle, ‘mpari Bastiano che rammendava le reti, le aguglie che di notte saltavano nell’acqua.

Non aveva fame. Prese solo un caffèlatte con dei biscotti. Fece una doccia e si fermò in piedi, dietro la finestra a guardare il mare. Le scarse luci della strada non riuscivano a illuminare il buio sempre più fitto. Il rumore delle onde la inquietava e la placava nello stesso tempo. Riuscì a mettersi sul letto solo alle prime luci dell’alba, quando, sebbene non ci avesse proprio pensato, aveva ormai preso una decisione. La casa non l’avrebbe venduta: un giorno o l’altro, non poteva che tornare là.




Questo è il racconto che ho letto stasera per l’incontro su Pellaro e il mare, organizzato dalla Pro Loco Reggio Sud negli spazi del NewKiteZone, cui ho avuto il piacere di intervenire insieme a Giuseppe Laganà, che ha recitato alcune sue poesie tratte del volume Alchimie. Nel corso dell’incontro, concluso con degustazione di vino di Pellaro e stuzzichini preparati dalla signore delle famiglie Laganà - Coppola – la presidente della Pro Loco, Concetta Romeo, ha parlato dell’esigenza della cura del territorio e Agostino Martino ha sottolineato come il vento di Pellaro possa diventare una notevole ricchezza per tutta la città.


 
La lettura delle poesie e del racconto è stata preceduta da questa mia piccola introduzione:



Diceva Predrag Matvejevic, autore di quel Pane nostro che è uno dei libri fondamentali per conoscere la civiltà del Mediterraneo, che «la Calabria è una terra strana, in realtà è quasi un’isola, una passerella alta e stretta tra due mari, un bivio che prepara la strada verso il Mediterraneo profondo, il salto verso la Sicilia. È una terra di confine, uno di questi posti che viene sempre prima o appena dopo che ci si lascia tutto alle spalle. Ma il mare da voi è più vicino alla terra che in tutto il resto d’Italia, e quasi ti viene incontro da tutti i lati, è vicino a tutto, ha qualcosa di dilagante, inarginabile, è il Mediterraneo che illumina anche le montagne, che porta il sale delle onde fin dentro ai boschi, alla grandezza della Sila. Mi piace la Calabria. Sempre dove c’è più mare c’è più luce, c’è più vita, e c’è più disordine. Per me conta molto, è importante il disordine. È una cosa salutare.»
Il mare di Pellaro – territorio in gran parte collinare – è colmo di Storia e di storie.
In questa conca, i Greci – sbarcati poco più a Nord, nella zona dell’attuale Calopinace – hanno portato la civiltà degli olivi e dei mandorli. Qui, all’incirca presso l’insenatura di Occhio, hanno trovato porto sicuro le navi romane dedite ai traffici con l’Oriente (e più di un comandante, sceso sulla terraferma, avrà comprato, per la sua casa, una lucerna di terracotta). Dal sito archeologico di Occhio – inaugurato in pompa magna qualche anno fa e incredibilmente lasciato in stato di degrado – provengono reperti, in particolare bellissime anfore, esposte al Museo Archeologico di Reggio
Qui sono arrivati gli ebrei che ci hanno insegnato l’arte della seta e non tanto lontano da qui è sbarcato san Paolo. Qui sono apparsi i pirati turchi, lasciando memorie di lacrime e spaventi e sono giunti, in ghingheri, gli alti funzionari dei viceré spagnoli. In questa costa, tra Fossa San Giovanni e San Gregorio, sostò la flotta che avrebbe sostenuto la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571). Da qui è passato Garibaldi. Qui il mare si è alzato in onde alte tredici metri che, con folle violenza, hanno aggiunto catastrofe alla catastrofe del grande terremoto del 1908. E proprio qui, nei primi giorni del settembre 1943, dalle navi da guerra americane si sono mossi verso terra gli anfibi, carichi di cibo, segnando, per questi luoghi, la fine della guerra e l’inizio della libertà.

Giuseppe ed io non affronteremo la grande storia, ma racconteremo emozioni personali, lui con le sue poesie ed io con un racconto che è immaginario, ma ha un nucleo reale, la morte, una ventina di anni fa, di una ragazza, cui mi piace rendere omaggio.






Nessun commento:

Posta un commento