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- Stamattina, al
supermercato, ho intravisto Maria Chiara, con la madre e la figlia, ormai
grande, sarà già all’Università.
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- La madre…riprese Anna
con tono lievemente ironico e Teresa la guardò interrogativa.
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Non lo sai? Maria
Chiara è figlia di suo padre, forse; di sua madre no di certo. Piatta come un
tavolo, un bel giorno la signora si ricoverò in clinica in un paese più in là,
non ricordo quale, e ne uscì due settimane dopo con una bambina. L’aveva
partorita, si disse, un’orfana, giovanissima, che viveva con la zia. Non era il
suo primo parto e anche il bambino di prima se l’era preso un’altra donna.
- -
Una sorta di utero
in affitto?
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- Già. Chissà se lei
lo sa.
Dalle
tre alle quattro e mezzo, quando la cucina era stata messa a posto, i mariti
riposavano e faceva troppo caldo per qualsiasi attività, Anna e Teresa se ne
stavano a parlare sui gradini della scala, Anna sopra, Teresa sotto il
pianerottolo del primo piano. Commentavano le notizie del tg, parlavano di
figli, si raccontavano qualche libro o qualche film.
Amiche già prima di essere cognate, col tempo erano diventate pressoché
sorelle. Tutte e due insegnanti, ormai non lontane dalla pensione, Anna proveniente
da Roma, Teresa da Torino, passavano agosto in Calabria, nella casa ch’era
stata dei genitori di Anna e di Paolo, il marito di Teresa. Il piano terra,
l’avevano affittato, per pochi euro, a Mira, la rumena che aveva accudito negli
ultimi anni la madre di Lucia, e che, durante l’anno, manteneva anche i loro
appartamenti puliti e in ordine.
Il
casuale imbattersi nella vicenda di Anna Chiara orientò quelle che loro
chiamavano conversazioni del bizzolo sulle storie di Carruba, paese
dove Anna era nata e cresciuta e che Teresa aveva frequentato, e solo per brevi
periodi, da quando s’era fidanzata con Paolo. Ogni pomeriggio, Anna raccontava
una storia che, spesso, era stata sua madre a ripeterle, seduta su una sedia di
plastica bianca, con lei sul gradino della scala.
Vennero
così fuori le vicende dei tanti in carcere per ‘ndrangheta (pesci piccoli,
qualcuno piccolissimo, che avevano infelicitato la vita propria e altrui), e di
coloro che in carcere non c’erano mai stati ma nessuno dubitava fossero di quelli; i tanti drammi familiari
(storie truci di mariti che avevano ucciso le mogli, ma anche di padri che
avevano ucciso i figli, o di persone che avevano tentato il suicidio); i
politici, dall’onorevole al delegato circoscrizionale, indagati, incarcerati,
prosciolti, ancora indagati; le passioni amorose perditesta di madri di
famiglia e di uomini considerati lontani da ogni follia; le badanti che s’erano
ben sistemate; le liti e i rancori che avevano allontanato i membri di questa o
quella famiglia.
Piccola frazione
di un quartiere di periferia d’una città periferica, Carruba si stendeva lungo
la strada provinciale da un ponte all’altro. Sebbene non ci fossero più di due
chilometri da un estremo all’altro, era in realtà formata da tre parti: quella,
un tempo campagnola, dei due valloni, quella delle case popolari, le palazzine,
e quella delle poche putìe, il
salumiere, il macellaio e il fruttivendolo. Al contrario dei paesi limitrofi,
non aveva nome di santi. E questo, insieme alla mancanza di un centro, una
piazza come una grande rua in cui
ritrovarsi, le impediva di essere un vero paese. Quand’era a scuola media – Anna
aveva frequentato un istituto di suore in città – una monaca le aveva chiesto
di spiegare perché si chiamava Carruba. Anna aveva interrogato nonni e prozii.
L’aiuto maggiore le era venuto da zio Eugenio: – Qui arrivavano i venditori di
carrube, dalla Sicilia. Lei modificò la storia, scrivendo che quel luogo era
noto fin dai tempi antichi per le floride coltivazioni di carrubi. Aggiunse il
passo del Vangelo in cui il figliol prodigo mangia le carrube dei porci e due
versi di Quasimodo …le cantilene dei carri lungo le strade/ dove il carrubo trema nel fumo
delle stoppie… e s’inventò, per soprammercato, che l’avevano portato
i greci, insieme all’olivo, alla vite e al grano. Suor Michelina, che
disprezzava chi aveva difficoltà ad imparare e odiava i più bravi, aveva alzato
un sopracciglio, ma le aveva dato un buon voto.
- -
Ma quante storie
ci sono in questo luogo? – si stupiva Teresa – Raccontandole, mi sembra di
stare dentro un piccolo Decamerone.
- -
Esageri. – diceva Anna–
Ma certo uno scrittore avrebbe materiale d’ogni tipo. Gialli, commedie, drammi.
Amore e morte. Avventure e passioni. Quanti romanzi si potrebbero scrivere.
Roba forte. Senza bisogno di inventare nulla.
Obiettava
Teresa: Senza invenzioni? Chissà quante variazioni e aggiunte sono state fatte
a queste storie da chiunque le ha raccontate.
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- In fondo – osservò
un pomeriggio – ogni pezzo di mondo è tutto il mondo, la vita non è quella che
viviamo, ma quella che pensiamo di vivere e il passato non è che il ricordo che
ne abbiamo.
Anna
rimase un po’ in silenzio, prima di rispondere:
-
- Qualche anno fa,
quando morì nostro zio Giulio, senza moglie e senza figli, mia cugina
Antonietta mi chiese di vedere insieme a lei tra le sue carte: cosa conservare,
cosa buttare. Non eravamo mai state tanto tempo insieme, da sole. Il discorso
scivolò sui nostri nonni comuni: per me, quelli materni; per lei, quelli
paterni. Dissi, come fosse un’ovvietà, da tutti riconosciuta, che la nonna era
una santa, il nonno, un grand’uomo sì, ma burbero e autoritario. Lei mi guardò
strana: Quando mai. – replicò – Lui era buonissimo, lei, con la sua aria da
santarella, era cattiva: cattiva proprio.
A partire dal 15
agosto, Zoomsud ha pubblicato, con il
titolo di Donne in Calabria, alcuni
miei racconti.
Quattro erano stati
già pubblicati sul mio Blog come Microstorie.
Le conchiglie di Serena e Almunda fa
parte di una pubblicazione del Self (Secondigliano Libro Festival) intitolata Il mare bagna ancora Napoli.
Le sorelle del bizzolo era
inedito.
http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/103824-donne-in-calabria-4-le-conchiglie-di-serena-e-almunda
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