Non sono pochi i preti
protagonisti dei romanzi di Ferruccio Parazzoli. Al di là delle valutazioni di
merito letterario, merita attenzione e apprezzamento questo suo provare a
risolvere in racconto problematiche teologiche e morali della cattolicità
contemporanea ponendo al centro figure che l’Occidente post cristiano tende a
marginalizzare quali reperti di una storia conclusa. Vicende, le sue, sempre
spiazzanti e ben lontane da toni banalmente apologetici ed edificanti.
Protagonista del suo
ultimo libro, Missa solemnis, edito
da Bompiani, è un cardinale vecchio e malato, ispirato ma non ricalcato sul
cardinale Martini, che vive in una casa per sacerdoti anziani, accudito da due
preti e da una suora e visitato, ogni settimana, da un giovane padre
spirituale. Già teologo ed esegeta soprattutto del Vecchio Testamento «Quando pensa
alla Bibbia, il Cardinale pensa invariabilmente al Vecchio Testamento. È uno
sbaglio, specie per un cattolico e per un esegeta, di cui non si è mai saputo
emendare»,
abituato agli studi e al confronto «con il pensiero del dubbio e del rifiuto», non ha mai frequentato la
gente comune «Non sono mai stato un prete di parrocchia, non ho mai
sentito l’odore delle scale di quelle case. Non ho mai bussato a quelle porte.»
Ama i riti
pomposi, sa ridere, anche se non tutti se ne accorgono, e ha un grande rispetto
per il corpo: «… lo spirito è causa degli errori, di
peccati, perfino delle malattie della carne. È lo spirito ad aver bisogno della
guarigione, non la carne. La guarigione della carne la possono dare gli uomini
con la loro scienza, con il loro senso della misura. La guarigione dello
spirito la può dare solo Dio con la sua irrazionalità, con la sua dismisura.»
Ha avuto «una vita senza
scosse», e
questo, pensa, «può voler dire che Dio non è mai venuto a visitarti»: «Giorno dopo
giorno, nella normalità della mia vita io ho dovuto cercarlo. Ogni mia azione,
ogni mio studio, ogni mia parola, ogni mio scritto, era un richiamo senza
risposta. Perfino la mia ascesa nell’Istituzione della Chiesa era diventata per
me uno scandalo. La mia porpora era il silenzio di Dio. Dio non parla nella
normalità. Se la mia porpora è il silenzio di Dio, darò gloria alla porpora per
un’ultima volta, darò solennità al silenzio di Dio. Lo celebrerò nella Missa solemnis.»
Per questo, «si prepara,
immagina, prova, riproduce nella memoria ogni parte della Missa solemnis: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei.». Si esercita nella
vestizione dei paramenti sacri e, la notte, prende in mano la sua vecchia copia
del Vangelo «un libretto dalle pagine ingiallite che il Cardinale
porta con sé fin dall’adolescenza, prima di entrare, non ricorda esattamente
perché, nella Compagnia di Gesù» e «cancella con il mozzicone di matita intere frasi che
fino a oggi ha creduto di ritenere fondamentali.»
«Io lo so, l’ho
insegnato. Ogni parola è legata. Non c’è altro filo che le regga. Ricucire. Dunque,
non tagliare. Michea e Matteo, Isaia e Matteo, come in un’eco. O così o niente.
Accetto. Così sia. La mia sconfitta è la mia gloria. Così sia. – si dice il
Cardinale, consapevole della vicinanza della morte – Matteo e Michea, Matteo e
Isaia, una stalla e un parto, il quotidiano solennizzato. Porterò la porpora
fino all’estremo della sua solennità. Se il nostro è un Dio tessitore che
collega il filo più tenue per intessere la più splendida veste, la mia porpora
sarà il tessuto di Dio.»
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