L’ultima volta che ho
incontrato Rosario Villari è stata nel gennaio del 2011. Mi ricevette nel suo
studio romano e parlammo a lungo. Fece un bellissimo schema per la prefazione
che gli avevo chiesto per i Racconti per
Nisida e l’Unità d’Italia, ma, qualche giorno dopo, mi telefonò per
scusarsi: non l’avrebbe scritta. Mi dispiacque non poco, ma, anche in quel
caso, non potei che stimare la profonda serietà del suo lavoro. Stava completando
– c’erano faldoni di migliaia di fogli che doveva correggere – quello che
sarebbe diventato il suo libro-testamento, Un
sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero 1585-1648.
Ho la fortuna non solo d’aver
studiato sui suoi manuali e d’aver letto tutti o quasi i suoi testi sulla
questione meridionale, ma di poterlo ricordare in tanti incontri, a Reggio, a
Messina, nella sua casa romana, al tempo in cui era anche deputato, a casa mia
a Pellaro (era un buongustaio, che apprezzava la cucina semplice e saporita di
mia madre).
Quest’estate, mettendo in
ordine vecchie carte, ho ritrovato un foglio che mi è particolarmente caro: le
sue indicazioni su come avrei dovuto lavorare alla mia testi di laurea sull’Uomo
qualunque.
Tutte importanti. Due
decisive. Uno: Mettere da parte le interpretazioni ideologiche. Due: Nessuna
riduzione all’unità, (ma lui lo disse in latino) ovvero rispettare la
complessità degli eventi, le sfaccettature dei fatti.
Io che ero arrivata all’appuntamento
al Cordon Bleu abbastanza confusa sul da farsi, ne uscii leggera, come quando si cammina qualche metro sopra la strada, e sicura
che avrei scritto un’ottima tesi. Lui era divertito. Mi propose di brindare a
champagne. Preferii un gelato: misura grande.
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