Maria va a trovare
Elisabetta per aiutarla, esempio della mano da dare a chi ne ha bisogno: così
mi hanno insegnato.
Da tempo, mi piace
pensarla – forse, sarebbe meglio dire: la sento – in maniera diversa, anche se
non opposta.
Maria – poi cantata alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio – è una ragazzina
che, in momento così straordinario della vita, lascia il suo piccolo mondo e si
ritira in una sorta di eremo. Non sola, ma in compagnia d’un’altra donna. Non
la madre né una compagna e neppure una del paese, ma una parente più anziana, che sta vivendo un’esperienza simile alla sua.
Una sorta di zia – zia, per i bambini napoletani, è
qualsiasi affettuosa amica/conoscente della madre cui si può guardare con senso
di affidamento – con cui condividere mesi così fondanti delle loro vite: con
cui confidarsi, parlare dei rispettivi mariti, pregare, cucinare, tessere,
ridere.
Maria, magari,
sostituisce Elisabetta in quei lavori che la più giovane età e il fisico non
ancora appesantito dalla gravidanza avanzata le consentono più facilmente. Ma
Elisabetta è, per Maria, lo spazio e il tempo per costruirsi un cuore che non
vacilla rispetto al suo mistero.
Me le immagino sedute
sotto il portico di un giardino, ombreggiato d’alberi. Filano e si raccontano
segreti, mentre Zaccaria attende ai suoi impegni e Giuseppe, che l’ha
accompagnata, lavora in qualche bottega da falegname o è tornato a Nazareth,
nell’attesa che sia tempo di andare a riprenderla.
Il tramonto scende
tranquillo. Maria si alza, rapida, perché il pasto della sera sia pronto all’ora
debita. Elisabetta s’attarda ancora su un ultimo giro di fuso. Non hanno
bisogno di parole. Si sorridono.
Protettrici, entrambe,
delle donne, quando si sostengono tra loro, quando si danno una mano per dare
nome e chiarezza ai battiti confusi del cuore. Espressione non banale, anzi
sacra, della sorellanza.
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