La gonna di piqué bianco a pieghe si gualciva facilmente. Angela percorreva il Corso attenta a
farla restare candida e ben stirata. Indossata con la maglietta a fiorellini, la
faceva sentire bella. Quasi. Perché, lei, bella non era. Tutta colpa degli
occhiali. Ne aveva cambiate di montature, ma nessuna che non le appesantisse il
volto, facendola sembrare più grande della sua età.
Di anni, ne aveva diciotto, ma Stanislao
gliel’aveva detto: Sembri mia nonna. Anche se, poi, s’era messo a ridere: Scherzo.
Lei, di Stanislao, s’era innamorata
subito. Anche se. Non era uno di quelli bravissimi a scuola, non discuteva di
politica, non aveva passione per ciò che doveva suscitarla, i libri, il teatro,
i film impegnati.
Orfano di padre e madre, l’aveva cresciuto
lo zio, professore di latino al liceo classico della città. Di nobile casato,
ricco di famiglia, appassionatamente dedito agli studi, Stanislao senior aveva
lasciato al nipote la libertà di crescere come voleva. All’amore della
letteratura, Stanislao junior preferiva un’indolenza quieta e la ricerca di
amicizie e d’un amore che riempissero il vuoto delle grandi stanze rigurgitanti
di libri.
Stanislao – dai compagni chiamato Stani –
aveva iniziato a frequentare la chiesa vicino al Castello per vedere Floriana,
che di Angela era compagna di classe.
Bruna, sottile, i capelli sciolti sulle
spalle e gli occhi vivaci, Floriana aveva la bellezza elegante di una donna
matura e la freschezza della sua età.
A Stanislao aveva concesso qualche giorno
d’attenzione, per educazione, per cortesia, poi ne aveva preso le distanze. Il
garbo aveva mascherato, ma non nascosto, che non lo considerava degno di lei.
Era stato in quel periodo – si sentiva un
cane bastonato – che Stanislao aveva baciato Angela. S’erano ritrovati in
sagrestia, ad aspettare don Luigi che stava confessando. Angela gli aveva dato
da parlare, con occhi dolci e sguardo amorevole e a Stanislao s’era annebbiata
la vista abbastanza per ingannare se stesso per qualche giorno.
Quando s’erano rivisti, Stanislao le aveva
spiegato che lei era troppo studiosa per lui – voleva dire: troppo vecchia,
troppo pesante – e le aveva chiesto di intercedere con Floriana. Qualcosa, in
fondo alla mente, le diceva che doveva mostrarsi offesa per una richiesta che
ne minava la dignità. Ma, nel centro del cuore, le sembrò come una carezza dopo
uno schiaffo. Facendo da messaggera, avrebbe
ancora potuto stargli accanto, e ricevere, come una mendicante, qualche
briciola del suo sguardo.
Aveva parlato con Floriana: Ti vuole bene.
L’aveva avvicinata a lui con le parole e con gli occhi l’aveva allontanata: Non
gli credere, non è abbastanza per te.
Floriana aveva stretto le spalle: Dopo gli
esami, vado via. Mio padre è stato trasferito al Nord.
Nei giorni degli esami di stato e del boia
chi molla, con le barricate sul Corso e i carri armati sul Lungomare, Angela
confortò Stanislao.
Ad agosto, come da tradizione, lo zio di
Stanislao si trasferì a Gambarie e, per una volta, insistette col nipote perché
lo seguisse: Un po’ di montagna ti farà bene.
La prima domenica che avrebbe potuto rivederlo,
Angela entrò in chiesa lisciandosi la gonna di piqué bianco. Caterina e
Giovanna stavano già distribuendo i libretti dei canti e Adriano, il più bravo
del liceo, aveva disposto le sedie per quelli del coro. Stanislao arrivò con
una chitarra nuova. Abbronzato e ingrassato, sembrava aver perso un po’ di quell’aria
incerta che l’aveva innamorata. Lui era l’unico che non le facesse paura; gli
altri, con le loro facce sicure, le mettevano freddo.
Vado a Londra, come lavapiatti. Zione s’è convinto
a lasciarmi partire. Dovrei stare due mesi e tornare per l’inizio
dell’Università. Ma chissà, magari resto là.
Con un pizzico d’invidia, i compagni gli
fecero festa. Angela stentò un sorriso. La gonna si era stropicciata, ma non
contava più.
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