Come la danza delle virgole
nere davanti agli occhi che non si potevano stringere tutte in un pugno (non
che avessero la forma, perfetta, delle virgole: erano contorte, rattrappite,
frastagliate, ma non sapeva come altro chiamarle) – le sfuggivano i sogni.
Per qualche mese, Anna s’era
data un compito. All’alba, prima ancora di far colazione, appuntare chi e che
cosa, di notte, aveva abitato la sua mente.
Sognava più di quanto
pensasse. Buona parte dei sogni legati a persone ed ambienti di lavoro (ma,
questo, già lo sapeva), tralci del recente passato, qualche piccola
premonizione (la stupiva aver sognato di camminare su una salita d’olive
qualche giorno prima che più d’uno le parlasse della buona raccolta dell’anno).
Più spesso non ricordava.
Molte mattine in cui non ricordava nulla. Altre in cui ricordava come, di
notte, s’era ripetuta il sogno da cui s’era appena risvegliata e anche all’alba,
ancora nel tepore del letto, ripensava ciò che doveva trascrivere, ma un
istante dopo, mentre, a tastoni, prendeva la biancheria, ogni immagine, ogni
parola s’era già volatizzata. E le restava solo un senso vago, come di acquarello
evanescente, un calore del cuore, un respiro trattenuto.
Che l’ovatta della casa –
tutta buia e silenziosa – conservava ancora un poco, finché la mente riprendeva
contatto con le responsabilità del giorno.
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