A casa mia, la frutta martorana piaceva –
e molto – vederla nelle vetrine delle pasticcerie: così vera, colorata,
invitante. Ma non la compravamo mai, perché nessuno di noi la mangiava: di un
dolce esagerato tanto da sdingare come il succo del più acre dei limoni.
Né c’era nessuna forma di festeggiamento di Tutti i Santi, se non la
processione… per i Morti: ovvero, la giornata di festa per i Santi non era che
un giorno in più per poter commemorare i Morti. Cosa che si faceva, per
fortuna, senza nessun macabro regalo dei defunti ai bambini, ma con due visite
al cimitero. Quella privata, di ogni famiglia ai propri cari e quella
collettiva, con la processione che, dalla chiesa, risaliva la strada verso il
cimitero – in testa il parroco e poi un po’ tutti, bambini e vecchi, donne e
uomini, ragazzi e ragazze – tra canti e litanie. Era una forma di ricordo
collettivo di chi, di quella stessa comunità, aveva fatto parte prima. Si
spargevano fiori per i parenti, per gli amici, per i parenti dei parenti e
degli amici e ci si fermava a lungo davanti all’ossario, che conteneva i
resti di persone sconosciute e, soprattutto, dei morti del grande terremoto del
1908. Si sedimentava così, inconsapevolmente, il senso di appartenenza ad un
luogo, ad una storia: ci si sentiva parte di una comunità che aveva un passato
e, di conseguenza, avrebbe avuto un futuro: una piccola eternità costruita
dallo stesso passare, su quel lembo di Calabria, delle successive
generazioni.(Erano gli anni 50-60 del secolo scorso e, in quei due giorni, la
radio trasmetteva molta musica classica e sinfonica e in tv non passava ombra
di rivista, commedia, barzellette e simili. Il clima generale tendeva non alla festa
ma al raccoglimento, ad una composta, se non severa, serenità).
Hallween è entrata nella nostra famiglia, quando
mia figlia, fin da piccola, ha cominciato a frequentare corsi d’inglese. Una
simpatica festicciola, un mini carnevale, che ha prodotto qualche bel
travestimento da streghetta, qualche acquisto dei torroni di morbido cioccolato
che, in quei giorni, tradizionalmente allietano i palati napoletani, e il
trionfale ingresso nella mia cucina della zucca. Zucca che, nella mia famiglia
d’origine, era considerata pasto degno dei maiali e che, al contrario, io
cucino in tutte le salse: da fritta ad arrosto, da vellutata a risotto.
Insomma, Hallween non ha portato nella nostra casa nessuna esaltazione della
morte né il gusto dell’horror e/o dello splatter ma un’altra forma di sorriso:
quello dolce di tanti bambini americani che bussano alle porte dei vicini,
minacciando timidamente uno scherzetto per avere un dolcetto. Abbiamo
semplicemente integrato alla nostra maniera un’altrui tradizione. Un po’ come
ci piace, una o due volte l’anno, gustare il sushi: cosa che non ha minimamente
intaccato il nostro quotidiano apprezzamento della pasta.
Una tradizione finisce quando non riesce a
parlare più alle persone. Quando, insomma, non è più viva e attuale
rielaborazione, nel presente, del passato, bensì qualcosa di ormai morto. E, quindi,
poiché gli uomini hanno orrore del vuoto, viene sostituita da altro: buono,
cattivo o pessimo che sia. Rimpiangere il tempo passato può essere una
malinconica consolazione personale, ma è un conforto collettivamente sterile.
Quello che non sappiamo più come affrontare è il rapporto con la morte. Cosa
estremamente grave perché l’idea, consapevole ed inconsapevole, che abbiamo o
non abbiamo della morte definisce il nostro vivere e il nostro modo di
affrontare dando un senso allo scorrere dei giorni dal passato, al presente al
futuro.
Pubblicato su Zoomsud con il titolo In lode delle zucche piene
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