mercoledì 5 novembre 2014

La fortuna di Dragutin di Gino Battaglia




Come una telecamera che segue, discreta e partecipe, la vita di un campo rom, nella periferia di un’indefinita città italiana. 

Tre anni dopo Malabar, che entrò tra i finalisti dello Strega, Gino Battaglia, gesuita della Comunità di Sant’Egidio, conferma le sue ottime doti di narratore con La fortuna di Dragutin, romanzo che dovrebbe leggere chiunque voglia, al di là degli abituali cliché, conoscere il mondo rom.

La voce fuori campo che racconta fatti e personaggi che scorrono lievi e incisivi davanti allo sguardo del lettore è, in realtà, la voce di uno che i campi rom li frequenta assiduamente, che di uomini e donne rom è amico sincero: capace di restituire al lettore la molteplice umanità degli abitanti dei tanti ghetti in cui si continuano a isolare/ad essere isolati gli “zingari”.

Il racconto si snoda a partire dalla preparazione, nella famiglia di Dragutin – che da piccolo era stato l’unico fortunato sopravvissuto del suo campo a una carneficina nazista e la cui fortuna si è poi concretizzata in molte ricchezze e una rispettata – della festa annuale di Santa Paraskeva.
La santa patrona della famiglia che per l’ortodossia serba e balcanica costituisce un elemento forte di identità. Sia nel tempo, perché collega tra di loro tutte le generazioni, da quelle già scomparse a quelle appena nate che nello spazio, facendo idealmente rivolgere lo sguardo a quella Jugoslavia, patria dell’animo, ormai smembrata.
“È Dio che è contento di noi. Quanti giorni passati come un senzadio! Per un giorno pensiamo a lui. E, forse, è solo per questo giorno che la mia vita continua. Se non ci fosse questa festa forse cadrebbe il mondo. Quanti giorni passati senza pensare a Dio…”.

La storia – che si dipana a partire dalla festa fino ai giorni di pioggia violenta che allagano il campo, trasformandolo in un mare di fango e producendo una morte giovane intorno a cui tutti nuovamente si stringono – consente di entrare all’interno di quella che è, oggi, l’identità rom. Voluta e subita, persa e ritrovata, rinnegata e sopravvissuta a se stessa. Separata dai gagé, per esclusione ed autoesclusione. Reclusa ed autoreclusa nei propri recinti. Dolente e furba, lamentosa e allegra, ingenua e violenta. Unita, ma non come la vorrebbe il vecchio, saggio Dragutin, il cui corpo e la cui mente stanno cedendo ma che – come dicevano ai bambini gli adulti durante l’eccidio da cui si è salvato – continua a pensare che la salvezza del suo popolo sta solo nel restare insieme, uniti.

Dalla complessità di un’identità fissa nel tempo eppure mobile – anch’essa alle prese con le problematiche e le opportunità del presente – emergono aspetti nuovi.

Come Milan, che respinge duramente ogni uso dei piccoli – “Che uomo sei, se sfrutti i bambini? Se non hai i soldi, lavora, fa’ qualcosa. Prendi il mitra e fai una rapina, ma lascia stare i bambini” – e la giovane la giovane, bella e sprucida Jàgoda, figlia minore di Dragutin.Che rifiuta il destino delle ragazze rom – tuttora, sottoposte alla schiavitù di un matrimonio come atto di compravendita tra il padre e il marito, merce con un prezzo preciso – e sceglie un marito turco: contro la volontà della famiglia e oltre la chiusura del campo.

Già pubblicato su Zoomsud:

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