Come una telecamera che segue, discreta e partecipe, la vita di un campo rom, nella periferia di un’indefinita città italiana.
Tre anni dopo Malabar, che
entrò tra i finalisti dello Strega, Gino Battaglia, gesuita della
Comunità di Sant’Egidio, conferma le sue ottime doti di narratore con La fortuna di Dragutin, romanzo che dovrebbe leggere chiunque voglia, al di là degli abituali cliché, conoscere il mondo rom.
La voce fuori campo
che racconta fatti e personaggi che scorrono lievi e incisivi davanti
allo sguardo del lettore è, in realtà, la voce di uno che i campi rom li
frequenta assiduamente, che di uomini e donne rom è amico sincero:
capace di restituire al lettore la molteplice umanità degli abitanti dei
tanti ghetti in cui si continuano a isolare/ad essere isolati gli
“zingari”.
Il racconto si snoda a partire dalla preparazione, nella famiglia di Dragutin – che da piccolo era stato l’unico fortunato sopravvissuto del suo campo a una carneficina nazista e la cui fortuna si è poi concretizzata in molte ricchezze e una rispettata – della festa annuale di Santa Paraskeva.
La santa
patrona della famiglia che per l’ortodossia serba e balcanica
costituisce un elemento forte di identità. Sia nel tempo, perché collega
tra di loro tutte le generazioni, da quelle già scomparse a quelle
appena nate che nello spazio, facendo idealmente rivolgere lo sguardo a
quella Jugoslavia, patria dell’animo, ormai smembrata.
“È Dio
che è contento di noi. Quanti giorni passati come un senzadio! Per un
giorno pensiamo a lui. E, forse, è solo per questo giorno che la mia
vita continua. Se non ci fosse questa festa forse cadrebbe il mondo.
Quanti giorni passati senza pensare a Dio…”.
La storia
– che si dipana a partire dalla festa fino ai giorni di pioggia
violenta che allagano il campo, trasformandolo in un mare di fango e
producendo una morte giovane intorno a cui tutti nuovamente si stringono
– consente di entrare all’interno di quella che è, oggi, l’identità
rom. Voluta e subita, persa e ritrovata, rinnegata e sopravvissuta a se
stessa. Separata dai gagé, per esclusione ed autoesclusione. Reclusa ed
autoreclusa nei propri recinti. Dolente e furba, lamentosa e allegra,
ingenua e violenta. Unita, ma non come la vorrebbe il vecchio, saggio
Dragutin, il cui corpo e la cui mente stanno cedendo ma che – come
dicevano ai bambini gli adulti durante l’eccidio da cui si è salvato –
continua a pensare che la salvezza del suo popolo sta solo nel restare
insieme, uniti.
Dalla
complessità di un’identità fissa nel tempo eppure mobile – anch’essa
alle prese con le problematiche e le opportunità del presente – emergono
aspetti nuovi.
Come Milan, che respinge duramente ogni uso dei
piccoli – “Che uomo sei, se sfrutti i bambini? Se non hai i soldi,
lavora, fa’ qualcosa. Prendi il mitra e fai una rapina, ma lascia stare i
bambini” – e la giovane la giovane, bella e sprucida Jàgoda, figlia minore di Dragutin.Che
rifiuta il destino delle ragazze rom – tuttora, sottoposte alla
schiavitù di un matrimonio come atto di compravendita tra il padre e il
marito, merce con un prezzo preciso – e sceglie un marito turco: contro la volontà della famiglia e oltre la chiusura del campo.
Già pubblicato su Zoomsud:
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