lunedì 10 novembre 2014

Il prezzo della carne di Mimmo Gangemi






Ha un andamento classico – la lingua di nitore manzoniano, il senso tragico dei cori greci, l’umanità autodistruttiva del sottosuolo di Dostoevskij – e un ritmo moderno – quello sobrio, senza fronzoli, della perfetta costruzione dei gialli di Simenon – Il prezzo della carne, rinnovata versione di Un anno in Aspromonte, che Rubbettino manda in libreria il prossimo 12 novembre.

Un libro che si inserisce nel miglior filone di Alvaro, Strati, La Cava e conferma Mimmo Gangemi come il più grande degli scrittori calabresi contemporanei: l’emozionante cantore della Calabria emigrante e contadina del Novecento e il narratore più vero, semplice e potente nello stesso tempo, della realtà e della mentalità ‘ndranghetista.

Tanto che sarebbe ormai il caso di parlare di una scrittura e di una Calabria gangemiana.

Il prezzo della carne si svolge, negli anni ottanta, nel cuore dell’Aspromonte – «lì dove non si giocava con la paura» e «negli ultimi anni c’erano state più deflagrazioni e colpi d’arma da fuoco che in un giorno fiammeggiante di trincea sul Carso». 

L’intimidazione contro l’ingegnere Gino Parisi è l’inizio di una discesa agli inferi che attraversa i diversi gironi di un male dalle molteplici facce: una cappa buia, che tinge i fatti di colori scuri, dal rosso sangue al nero del lutto e dell’angoscia, e scolora la coscienza, divorando a troppi la capacità di vivere a testa alta e con la schiena dritta.

Mico Barresi, «di giorno rispettabile galantuomo, di notte bandito», che «si teneva a mezzo tra l’onorata società e ‘ndrangheta, a parole era rigido nel codice d’onore, un custode delle regole, nei fatti aveva la spregiudicatezza sanguinaria dei nuovi tempi». Suo fratello, Vestiano, un «crudo assassino», «il primo a guadagnarsi cronaca e ribalta, con una crudeltà da essersi meritato fin da giovane il soprannome ‘nimali». Il vecchio don Rosario, «capo di niente, gli erano rimaste le medaglie e le cicatrici d’una vita in trincea. Nulla restava dell’onorata società, della locale compatta, del rispetto e dell’ubbidienza dei giovani, delle regole che tutto avevano retto», quando «aveva sì sancito vita e morte, arraffato con le guardianie, le mazzette, l’autostrada, il contrabbando di sigarette – i sequestri di persona e la droga, no, quelli li lasciava ai vermi di terra come i Barrese». I quattro giovani amici, Cola, ‘Ntoni, Peppe, Tano, «cresciuti da derelitti (…) incattivendosi verso quanti conducevano esistenze con un minimo di decoro, esibivano lussi, studiavano, potevano parola nelle discussioni in piazza», convinti «ch’era tempo di spremere soldi veri. (…) Si sarebbero creati uno spazio, gli altri gruppi avrebbero dovuto accettarlo, se no…». Facce, maschili - le donne, come la moglie di don Rosario, Assunta, sono presenze silenziose che non intervengono nelle “cose di uomini”. Articolazioni diverse di un’identica aberrazione: che non si ferma né davanti alle estorsioni, né alla coltivazione e vendita della droga, né al sequestro al fine di riscatto.

Di contro, una società debole. Dove, il brigadiere «non era nato eroe, né aveva scelto quella carriera per vocazione» e il parroco, al momento dell’annuale processione, aspetta paziente che i picciotti organizzino il trasporto della vara del santo protettore. Dove la sopraffazione, la violenza e i morti ammazzati diventano nutrimento del quotidiano pettegolezzo della bottega di mastro Umberto e i tanti onesti non sembrano avere peso e consistenza sociali. E dove l’ingegnere Parisi, brav’uomo ma «di indole pacifica, vile, in un posto dove, per vivere, serviva invece avere due dita di scorza, il cuore pietroso, l’anima inselvatichita, e l’istinto della guerra, di ribattere colpo su colpo» non si rivolge, per avere protezione, allo Stato ma agli “uomini di rispetto”.

Non finisce bene chi come Peppe, «lontano dal paese, (…) s’era scrollato di dosso quel mondo marcio e crudo a cui mai s’era adattato» e non trova il coraggio della verità neppure chi vorrebbe: «Francesco era accorso in aereo con la moglie. Durante il viaggio, aveva programmato civiltà. A qualsiasi costo. Avrebbe informato i carabinieri. Lo doveva al fratello. Il proposito gli vacillò mentre accoglieva le strette di mano della partecipazione. E si ritrovò figlio delle origini: di fronte alla morte, s’arrendeva alla vita, trattenendo i segreti. Appena accolse i baci sulla guancia di Mico Barrese, gli riuscì solo di tenere gli occhi bassi a terra».

È un romanzo, un grande romanzo, Il prezzo della carne, non un libro-denuncia e, tantomeno, un testo costruito per esigenze di mercato. Ma è uno sguardo fermo e chiaro su un sistema malavitoso, che verrà sconfitto quando, mutando le condizioni socio-economiche che l’hanno favorito, si sbricioleranno anche l’humus culturale, i vincoli emozionali, le sotterranee àncore psicologiche cui Gangemi dà forma e parole.

Nessun commento:

Posta un commento