Mattinata d’ottobre. Ancora quasi estiva. Col sole luminoso e la
temperatura alta. Da dove sono seduta io, la finestra inquadra una pittura
d’altri tempi: cielo azzurro, mare azzurro, colline azzurre: sfumature diverse
d’un unico colore.
Siamo
all’ultima parte del secondo incontro tra Daniela de Crescenzo, giornalista-scrittrice,
e i ragazzi. L’atmosfera, non priva qualche ora prima di serpeggiante tensione,
è ora molto distesa. Un po’ perché siamo in pochi (buona parte del gruppo è
passata ad altri laboratori). Molto perché, con una buona dose di domande maieutiche,
i ragazzi trovano finalmente le parole per dire il disagio di questo nuovo
inizio. “Io al futuro non ci penso proprio. E che ci devo pensare? Mi devo fare
ancora 13 anni, qualunque cosa dico è una cavolata”. L. esprime, con più rabbia
di altri, una difficoltà comune anche a chi dentro ci deve restare ancora
per poco.
Futuro è una parola tabù per molti dei ragazzi di Nisida. Perché o si configura
come la continuazione della loro precedente esperienza e, quindi, prevede
ancora reati e ritorno in carcere (“La mia vita è finita già”, dice F.) oppure
è difficilmente immaginabile.
O, meglio,
la si può immaginare come : - un’esistenza tranquilla, senza scosse, che ti fa
mettere “la testa sul cuscino” la sera; - il risultato di una scelta in nome di
un figlio e, più raramente, d’una fidanzata; - lo sbocco di un’insuperabile
stanchezza nei confronti della vita adrenalinica eppure disastrata fin lì
condotta. Ma è un’immaginazione debole, che non riesce ad andare oltre
astratte definizioni: non trova sogni, attese, eventi concreti in cui
incarnarsi e di cui parlare.
Che il tema
sarebbe stato tutt’altro semplice da affrontare, lo sapevamo i partenza. Che
fosse un tema necessario, ce lo conferma ciò che accade proprio quando,
abbassatesi le tensioni della prima parte della mattinata, un ragazzo dice: Beh,
io adesso ho scritto, ma tra un mese esco, e allora chi me lo darà il libro che
dobbiamo fare? Io l’assicuro che glielo manderemo, ma Daniela fa qualcosa
in più. Chiede: di dove sei che te lo porto io?
Lui risponde
e il breve, rapido scambio di battute diventa, incredibilmente, un duplice,
contemporaneo, riconoscimento. “Ma io – dice la giornalista – ho scritto di te
quando avevi dieci anni, ho parlato pure con tua mamma” e il ragazzo conferma,
ricordando l’articolo “grande, riempiva la pagina, con quel titolo… ” e anche
“sì, siete venuta a casa…”. “C’era scritto, qualcosa di sbagliato?” “No, era
perfetto”..
Non è il
caso di raccontare qui quale sia la storia di cui parlava l’articolo, ma era
prevedibile allora, nove anni fa (l’articolo è del 2005; e l’autrice,
finito l’incontro con i ragazzi, ce ne racconta i particolari) che quel
bambino sarebbe, appena ragazzo, entrato in carcere. (“Ho 19 anni, sto in
carcere da quasi quattro..”).
Conosciamo
bene i tanti destini annunciati che portano i ragazzi in carcere.
Sappiamo molto di meno cosa succede una volta che il ragazzo esce dal carcere,
come e perché ricomincia dal passato, come se la carcerazione fosse stata una
parentesi, oppure, al contrario, come e perché cerca un’altra strada.
Tutto il
lavoro che si fa a Nisida consiste nel dare ai ragazzi strumenti di
ri-orientamento in maniera che possano scegliere
cosa fare di se stessi e della (potenzialmente lunga) vita che hanno davanti.
Quello che
ci interessa approfondire, nel corso di questo laboratorio è come, durante la
fase punitiva ma a forte impatto-rieducativa del carcere, i ragazzi
provano a (ri)costruire nell’immaginario il loro futuro: sotto il segno
della (facile) continuità oppure sotto quello della (difficile) discontinuità. Seguendo
– dopo la Grammatica e la Sintassi del passato e del presente – il talvolta
deciso, spesso incerto, talora ambiguo, mai semplice formarsi del loro alfabeto
del ritorno: al passato o al futuro.
la foto è di Ciro Orlandini
Nessun commento:
Posta un commento