Esco dalla sala – prima proiezione del primo
giorno di programmazione – contenta di essere in gradevole compagnia. Perché,
questo, è un film di cui parlare subito e confrontarsi a lungo.
Certo, non è il Leopardi che mi porto dentro da
una vita. (L’Infinto, per me, non è una poesia, è la poesia, mi viene spontaneo recitarmela quando il cuore è
spaurito, le attese sono troppo lunghe, le malinconie amare, ma anche quando la
felicità spalanca l’iride). Un Elio Germano, bravissimo, ma, forse, un po’
troppo espressionista, troppo
fisicamente deforme, lo sguardo troppo esagitato.
Ma che coraggio intellettuale, da parte di
Martone, a mettere in scena – con una partitura quasi teatrale fatta di splendide immagini, splendida musica di contrappunto, bei costumi, ottimo
dialogo, bravi interpreti (memorabili i genitori del conte Giacomo) – alcuni
spezzoni della vita di Leopardi, il poeta più fuori tempo e più eterno della
nostra letteratura.
Martone mette a fuoco la difficoltà esistenziale
di Leopardi, il suo sentirsi estraneo al mondo, il suo urlo contro la crudeltà
della Natura matrigna (che, nel film,
ha il volto della madre, l’anaffettiva e bigotta marchesa Adelaide); la sua
insofferenza contro l’oppressione del padre, il marchese Monaldo, coltissimo,
reazionario e pure affettuoso, ma a condizione che i figli rimangano suoi prigionieri dentro le mura
della biblioteca di famiglia. La ferita d’una solitudine irrimediabile; il
dramma d’un corpo che, oltre la gobba, via via si rattrappisce; il mancato
amore di una donna. La malinconia, non priva d’orgoglio, di chi non condivide
alcuna illusione né del volgo né dei sapienti; l’ironia mordace contro le magnifiche sorti e progressive di un secolo
che ritiene di poter fare una massa
felice di individui infelici. Insieme ad un'irrefrenabile, quasi violenta, voglia di vivere, di amare ed essere amato.
E, su tutto – contro e oltre ogni cosa – i suoi
versi. Taluni eruditi, di linguaggio già antico quando lui li pronunciava. Ma,
altri, miracolo purissimo in cui tutto l’amaro d’una visione cruda della vita fino
alla disperazione si fa luminoso incanto, meravigliosa scoperta di emozioni eterne: dagli
occhi ridenti e fuggitivi di Silvia
alle Vaghe stelle dell’Orsa delle
Rimembranze, alla silenziosa luna del
pastore errante.
Versi preziosi, che fondano – e tuttora reggono –
la nostra (nuova) letteratura.
“La mia patria è l'Italia, la sua lingua e
letteratura”, dice Leopardi. E, in qualche modo, questo giovane favoloso continua la rivisitazione della nostra storia
nazionale, che Martone aveva iniziato con
Noi credevamo. Un’operazione coltissima, con forti valenze anche didattiche, svolta con estrema sensibilità e,
ripeto, con coraggio.
Perché a fare un film su un poeta, sul più grande dei
nostri (insieme a Dante) ce ne vuole, in quest’Italia, davvero tanto.
Ho gustato il tuo commento come se fosse un'anteprima del film, che vedrò domani. Grazie, Maria!
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