Il prologo è fissato al 1936: una nobildonna bellissima e ricchissima in fuga, con sette figli, da Torino verso Roma;
una colazione in una famiglia calabrese molto povera, otto figli intorno
ad un tavolo, in una mattinata di freddo non solo atmosferico.
Poi, la storia ricomincia all’inizio
degli anni 60 per concludersi nel 2003, seguendo, alternativamente, le
vicende di due famiglie e, soprattutto, di due padri (il primogenito
della nobildonna e il più piccolo degli otto fratelli) e di due loro
figli.
La prima famiglia è quella dell’autore,
il cui padre, Emilio, sarto di professione ma senza più clienti, lascia
Polistena per cercare lavoro alla Fiat e si fa presto raggiungere a
Torino dalla moglie e dai quattro figli: il più piccolo è Nico, l’io
narrante. Una famiglia come tantissime altre che, all’inizio del boom
economico, emigrano dal Sud e dalla Calabria in quella Torino che
diventa per molti ciò che l’America era stata tra la fine dell’Ottocento
e i primi decenni del Novecento: il sogno, faticoso ma concreto, di una
vita migliore.
L’altra è La famiglia per eccellenza,
l’unica che, nell’Italia repubblicana, sia sembrata avere l’aurea di
monarchia regnante: gli Agnelli, con le vicende dell’Avvocato che, a
quarantacinque anni, dopo un lungo eden dorato, assume la direzione
della Fiat, creata dal nonno, il Senatore, e del suo figlio maschio,
Edoardo.
I due padri non s’incontreranno mai,
anche se l’autore immagina una stretta di mano fra di loro, negli anni
ottanta, suggellata da queste parole di Emilio, per tanti anni
orgoglioso di poter garantire col suo lavoro gli studi dei figli e, con
gli straordinari, anche un paio di scarpe in più alla moglie: “Avvocato,
mi ha fatto lasciare il mio paese, ho cambiato lavoro, mi sono fatto
irreggimentare in un’officina sotto una linea di montaggio, mi sono
lasciato cronometrare le mansioni, mi sono fatto sottrarre il tempo per
stare con la mia famiglia, mi svegliavo di notte perché sognavo di non
riuscire a fare la produzione, Ho creduto ai vostri cambiamenti, mi sono
adeguato a una vita che avrei voluto evitare. Mi piaceva di più quella
di prima, ho ancora nostalgia di quel tempo senza tempo, a parlare del
nulla nella piazza del paese, mi piaceva ubriacarmi con gli amici e poi
litigare con mia suocera. Non mi sono ribellato neanche quando ho
scoperto la ‘calabrese? Veniva usato come un insulto. Mi avete promesso
un posto che pensavo non dovesse avere mai fine, che avrebbe dato un
futuro ai miei figli e ai miei nipoti e ai miei nipoti, che li avrebbe
fatti studiare. Ho comprato le vostre macchine e ho portato tutta la
famiglia in vacanza il 31 luglio a fine turno. Ho attraversato l’Italia
in pantaloncini e canottiera per tornare al paese e dire a tutti che ce
l’avevo fatta, che avevo un posto fisso e ora ero tranquillo, ero
contento di ritornare ai sapori veri della terra, ma che al Nord si
stava meglio, c’erano gli ospedali e la domenica andavo alla partita. Ho
comprato il frigorifero e la televisione e la domenica ho portato
moglie e figli in campagna perché era questo che vedevo fare alle
famiglie felici della réclame. Mi sono comprato gli abiti confezionati e
qualche volta mi scappa anche una parola in dialetto piemontese. E ora,
caro Avvocato, mi sta dicendo che tutto questo non ha più senso, che
dovete ristrutturare e io devo aspettare di entrare in esubero”.
I due figli s’incontreranno, invece,
intorno alla figura di don Luigi Ciotti, che non riesce a salvare dal
baratro della sua fragilità Edoardo ma dà una sponda al trovare se
stesso di Nico.
Primo romanzo del regista Mimmo Calopresti, Io e l’Avvocato
ha un ritmo filmico (con zoom ripetuti, sequenze alternate, il chiasmo
dell’incontro tra Gianni Agnelli e l’autore) e condensa in sé molti
aspetti. E’ il pagamento, da parte di Calopresti, di un debito al se
stesso ragazzo che pensava che, un giorno, la vita di suo padre
l’avrebbe raccontata. E’ il ripercorrere la sua vita, dalla primissima
infanzia calabrese alle ribellioni e alle nevrosi della gioventù fino a
trovare, nel cinema, lo sbocco delle proprie inquiete energie. E’ il
documento, prezioso, di una fase della storia italiana, dello sviluppo
squilibrato tra Nord e Sud e dello sradicamento anche emozionale che ha
comportato (e ancora comporta?) per più di una generazione. Ed è
l’indagine in una vicenda, quella degli Agnelli, in cui potere e drammi
si intrecciano richiamando la tragedia classica e della relativa
"ossessione" che l'autore ha nei confronti della figura carismatica
dell'Avvocato.
Non tutti gli aspetti risultano trattati
con uguale maturità di scrittura. Le pagine su Gianni ed Edoardo
Agnelli sono decisamente meno convincenti di quelle che riguardano la
fabbrica (la catena di montaggio; le ore di lavoro straordinario; la
marcia dei quarantamila) e delle pagine della memoria e del rapporto con
la Calabria (per esempio l’ultimo viaggio di Emilio, ormai malato, col
figlio verso la casa natale).
Ma tutto il libro si legge con interesse
e, in più parti, con un’emozione cui l’ultima domanda dà un sapore
particolare, perché non riguarda solo Emilio. Ha avuto senso lasciare la
Calabria per la Fiat? L’unica risposta, dice l’autore, è in quel vento
evocato dalla canzone di Dylan: “The answe my friend is blowin’in the
wind”.
Recensione pubblicata su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/53217-recensione-io-e-lavvocato-di-mimmo-calopresti.html
La foto - di Benedetta de Falco - è stata scattata durante la presentazione del libro alla Biblioteca Nazionale di Napoli il 28 maggio
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