L’ho pensato per molto tempo, ma non è stato Umberto Saba con la poesia studiata alle medie – Trieste ha una scontrosa grazia – il primo a farmi innamorare della città di San Giusto.
E’ stato mio zio Saso che, quando avevo due, tre anni – è tra i primi ricordi davvero miei della mia vita – cantava Vola, colomba bianca, ripetendomi: “parla di Trieste, che è tornata all’Italia”. (Nilla Pizzi ha vinto Sanremo con Vola, colomba bianca nel 1952; Trieste è tornata all’Italia nel 1954, ndr)
E sulla parola Trieste la sua
voce si faceva più lieve: come a contenere una commozione troppo intima
per lasciarla svilire (ma, questo, l’avrei capito col tempo) in una di
quelle discussioni politiche che s’accendevano facilmente tra dc e pci. E
che a me lasciava il senso di un qualcosa di sacro che legava le due
parole, Trieste e Italia.
Mi capita di leggere, a pochi giorni
dalla ricorrenza del 24 maggio quando “il Piave mormorava calmo e
placido al passaggio dei primi fanti” un bellissimo saggio, La guerra bianca -Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919 di Mark Thompson, edito da Il Saggiatore.
Per che cosa si combatteva? Alla
domanda, un ufficiale irredentista risponde: “Ma per Trento e Trieste”.
Lo stesso racconta: «“I soldati arrivavano per lo più dalla Calabria.
“Non si capiva una parola di quel che dicevano. Brava gente analfabeta.
Scrivevo le loro lettere a casa”».
Un mio nonno (contadino povero) è stato uno dei ragazzi del 99.
Una granata, scoppiatagli vicino, gli diede abbastanza problemi da
allontanarlo dalla prima linea, senza evitargli la guerra. Fu postino:
non solo portava le lettere, ma le leggeva e le scriveva.
Aveva appreso giusto le lettere
dell’alfabeto e qualche parola da una bambina (anch’essa diventata mia
nonna) che aveva avuto la fortuna di frequentare fino alla seconda
elementare e che gliele disegnava sulla terra, in campagna, mentre si
occupavano di capre.
Nel terribile bianco della guerra, imparò davvero.
Questo articolo è apparso su Zoomsud con il titolo La guerra bianca dei calabresi che non sapevano leggere http://www.zoomsud.it/commenti/52826-la-guerra-bianca-dei-calabresi-che-non-sapevano-leggere.html
Su Zoom è apparso anche Donna Consolata che non s'abituò mai a cucinare http://www.zoomsud.it/commenti/52729-donna-consolata-che-non-sabituo-mai-a-cucinare.html
“Cunsula, chi ‘mintisti supra?”. L'inutile domanda di don Ninu s’infrangeva, ogni mezzogiorno, su un muro di pietra: “Ma ‘comu? Cucinai ‘aieri”, che gli
rimandava poi addosso un'eco di sofferta rassegnazione: “Ti fazzu ‘na
pastina ‘a broru longu…”. Qualche pomodoro, un aglio, qualche foglia di
sedano, un po’ d’acqua e la pasta per lui era pronta. Lei, tante volte,
neppure si sedeva a tavola. Restava in cortile, su una sedia di paglia,
una veste scura con sopra un grembiule, i capelli grigi e ondulati, la
sua unica vanità da ragazza, trattenuti in una treccia fermata sulla
nuca, in una mano un po’ di pane, nell’altra un pugno d’olive.
Le sere d’estate, ognuno dei due si
preparava un’insalata di pomodori. Quella di lui, un trionfo di colori e
sapori. Li sceglieva quasi maturi ma non acquosi, li tagliava a fette
regolari e li mescolava con pezzettini d’aglio e cipolle tritate
sottili, tanto basilico sminuzzato a mano, un niente di prezzemolo,
cimette d’origano secco spezzate al momento; olio in quantità e pane
duro bagnato come accompagnamento. Quella di lei, arrabattata alla
meglio.
Il fatto è che, donna di lavoro e
d’economia, donna Consolata, a cucinare non s’era abituata mai, neppure
quando da mettere sulla tavola, ce ne sarebbe stato ormai più che a
sufficienza. Sul cibo, il suo orologio interiore s’era fermato
all'infanzia di stenti e agli anni della fame, quando, col marito
clandestino in America e il figlio da crescere, solo la rude bontà di
donna Cilla le aveva fatto, talvolta, trovare sul tavolo, al ritorno
dalla campagna (giornate di lavoro per una miseria), un piatto ancora
tiepido.
Di fame – di fame, non di appetito –
parlavano, quando ero piccola, non solo i vecchi, ma anche gli adulti,
quelli nati dieci, venti anni prima della seconda guerra mondiale.
Privazioni che avevano lasciato, in molti, l’abitudine a limitare le
esigenze, anche nel cibo: “ ‘u menziornu è ‘mportanti, ca ‘sira ‘ndi
ranciamu ‘cu ‘na pumaroru”. (il mezzogiorno è importante, che la sera ci
arrangiamo con un pomodoro).
La misura, il limite, mi sembrano valori
da (ri)conquistare. Ma non è tollerabile, oggi, sentire di nuovo
parlare di povertà e di fame: vere.
Rimando anche Scrittori calabresi in fila a Torino. Ma chi li legge? http://www.zoomsud.it/commenti/52621-scrittori-calabresi-in-fila-a-torino-ma-chi-li-legge.html
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