domenica 11 marzo 2012

Un'epigrafe d'erba


Non mi vestite di nero
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba, non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.
Adriana Zarri

Questa è l’epigrafe scritta per se stessa da Adriana Zarri, eremita, teologa, scrittrice, amante dei gatti, morta novantunenne nell’autunno del 2010.

Mi ricorda il cimitero del mio paese, quando ero bambina. Piccoli solchi di terra nuda o con qualche fiore. Diverso da una delle tante lenze  dei tanti campi solo perché vi si respirava un senso, pacato, quieto, assoluto del mistero e del sacro: di una sospensione del cuore, che comprendeva la lacerazione del dolore e l’attesa di un più grande bene. Sul cocuzzolo della collina più alta, poco sotto il cielo, davanti ad un orizzonte di mare, bello da lacrime.

E mi ricorda il grano del Giovedì Santo che torna in questo mio racconto, Il grano giovane del prete anziano pubblicato da Zoomsud:


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