domenica 19 febbraio 2012

Eppure, torna Primavera...


Fruaru, menzu duci e menzu amaru… Fruaru, fruaria, veni ‘u suli e ti caddia… Febbraio, mezzo dolce e mezzo amaro… Febbraio fa freddo, viene il sole e ti riscalda…

Nonostante l’insolito gelo – e niente ghiaccia più di una casa reggina, abituata anche d’inverno ad un mite tepore – la primavera s’annuncia col profumo, lieve, di candidi petali appena rosati…

Anch’io, da piccola, ho raccolto mandorle. Era il lavoro delle albe e dei tramonti di luglio e agosto, nelle ore in cui il caldo afoso dell’estate era sopportabile. Ad una ad una, cadute anche tra gli sterpi, scappate accanto ai papaveri rossi, alle margherite gialle, a fiori color viola di cui mai ho saputo il nome, la buccia pelosa che anneriva le mani. Non so quanti sacchi ne riempivamo ogni volta. Immagino che non si smettesse senza aver raggiunto una quantità minima, che so cinque, dieci.

Poi, nel pomeriggio, bisognava sbucciarle. Lavoro collettivo, sotto ‘u lastrico, vecchi e bambini soprattutto. Le mandorle versate dai sacchi in grandi ‘crii, da tenere sulle ginocchia, e due ceste, a destra e a sinistra: una per le bucce, l’altra per le mandorle. I vecchi raccontavano storie – conosco fatti e gesti ed espressioni di parenti mai conosciuti: più vividi nella mia mente di momenti davvero vissuti – qualche volta iniziavano il rosario. Poi le mandorle sbucciate venivano messe sul terrazzo a seccare, insieme ai fichi, alle pere, ai pomodori, e le bucce accatastate in un angolo, lasciate a seccare anch’esse, per usarle, poi, nel braciere.

E nelle sere d’inverno, nella grande stanza con le giare dell’olio e la madia per il pane, su grandi tavolati, una specie di martelletto che serviva solo a quello, le mandorle venivano schiacciate, i gusci rotti utili per il fuoco: e, finalmente, i frutti, accumulati in sacchi bianchi. Una piccola fonte di reddito, insieme al pane, all’olio, alle uova. Ma anche un patrimonio per le feste. Perché nessun Natale sarebbe stato concepibile senza ‘i pitrali con il loro ripieno di mandorli e fichi e nessun ospite sarebbe stato accolto senza amaretti e ‘mmenduli ‘nturrati e, d’estate, un’orzata, preparata immergendo in un recipiente d’acqua un gran telo gonfio, a mo’ di sfera, di mandorle macinate, e strizzandolo, fino a ridurlo ad una piccola cosa che quasi spariva in una mano.

Per ospiti graditi, era un onore e un piacere, per le padrone di casa, mescolare zucchero, mandorle, e un niente d’acqua, attente all’istante preciso in cui lo zucchero prima si scioglie e poi si caramella: un millesimo di secondo per ‘nturrare le mandorle alla perfezione: tutte vellutatamente lucide, croccanti, un aroma fresco che si scioglie in bocca rimanendo nelle narici, nel pensiero.

Ora non ci sono quasi più ‘mareme – le migliori tra le mandorle: piccole, profumate – nel reggino. Anzi, rispetto ai quintali e quintali di pochi decenni fa (lontani come secoli), ci sono proprio poche mandorle. “Banale” conseguenza del fatto che sono rimasti pochi mandorli. Chi può, di questi tempi, dovrebbe andare a cercarne uno: respirarlo, riempirsene gli occhi.


Rimando su Zoomsud anche a questi due pezzi:

nell'immagine, il ramo di mandorlo di V. Van Gogh

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