La lavandaia, certo. Avevo già dieci anni e al mio paese si lavava ancora in una vasca comune ad un crocicchio di strade, insaponando i panni sul lavello ondulato di granito e lì si abbeveravano le mucche e l’asino di ritorno dal suo lavoro. (Ho sempre amato gli asini; da bambina ci salivo in giardino; un pomeriggio d’estate, per gioco, uno mi afferrò dalla gonna nuova e mi fece un’altalena su e giù).
E il pastore. Ma, in campagna, non ne ho mai visto uno addormentato a bocca aperta sotto qualche albero, piuttosto lo incontravo scendere la fiumara per portare tutto il gregge, i capri, le pecore madri dalla lana beige, gli agnellini tenerelli, verso il mare. Borbottava, in dialetto, qualcosa come: “E’ dall’alluvione che non c’è una pioggia come si deve”.
E, poi, il contadino con il suo paniere di frutta e verdura in mano, con le mani callose e la giacca di fustagno liso. E la massaia con le sue galline, che conosce ad una ad una e parla a Rosina e a Bianchina con scontrosa tenerezza.
E l’arrotino, che somigliava a mastru don Giuvanninu, che forgiava le zappe e lavorò fino alla morte, fermandosi solo per una pesante influenza: “Non haiu putiri né mi lavuri né mi mangiu”. (non ho la forza né per lavorare né per mangiare).
E le botteghe di carni, salumi, formaggi come, da più grande, ho scoperto a Napoli. (Mi ritrovai ad una mostra, in villa comunale forse, sui pastori di San Gregorio Armeno, una trentina d’anni fa, e mi chiesi dove mai fosse questo paesino, se sarei riuscita a raggiungerlo per scoprire, poi, che si trattava di una via dentro la città).
E il pozzo e il laghetto fatto con un piccolo specchio e, in anni più recenti, con la carta d’argento, con le papere, le oche, i sassolini intorno.
E la faccia nera di uno dei Magi. Non c’era la televisione quand’ero proprio piccola e La capanna dello zio Tom l’avrei letta dopo alcuni anni: che ci fossero persone d’altro colore lo appresi nell’armonia del presepe.
E tanto muschio preso dalle armacere del giardino. E sulle armacere e sui giardini, i ricordi sono troppi da dire.
Mi dispiace di non aver mai saputo fare un presepe che fosse, esteticamente parlando, più che un “mettere i pastori a passeggio”. Perché, a me – ho una vera devozione per l’Eduardo di “Natale a casa Cupiello” – il presepe piace. Ogni presepe. Tutti i presepi. Che riportano alla pace calda e luminosa degli sfondi blu notte fitti di stelle della mia infanzia, curvati a custodire, con l’incanto d’una nascita speciale, l’essenza della vita.
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