sabato 24 dicembre 2011

Le crespelle della Vigilia


Quella Vigilia, nessuno la dimenticò. Di quelli che si salvarono, s’intende.
Le grandi gistre di crispelle, con lo zucchero, con l’uva passa, con la ricotta, col baccalà e con le alici, s’erano tutte svuotate. Il vino aveva accompagnato chiacchiere e balli tra zii e cugini dalle parentele intrecciate. Era quasi l’alba quando la padrona di casa, donna Francesca, aveva salutato cognati e nipoti con piglio allegro: “Ndi vidimu tutta ‘a cumpagnia a Capudannu,”. Saverio, marito di Maria, figlia di una sorella di suo marito, aveva risposto: “Si vidi cu c’è”. Lui non lo sapeva, ma non ci sarebbe stato.
Alle 5.21 del 28 dicembre 1908, 37 secondi d’inferno, seguiti da alcuni secondi di onde alte fino a tredici metri, fecero sprofondare la parte più costiera di Pellaro, uno dei 461 paesi del reggino distrutti dal terremoto, a cinquanta metri sotto il livello del mare. (Fino a pochi anni fa le mura venivano incontro alle prime bracciate nell’acqua).
Saverio, con un carretto tirato da un asino, stava portando un carico di bergamotti sulla strada di San Giovanni. Terremoto e maremoto lo sorpresero a Macellari. Cercò scampo scendendo verso la strada Nazionale, ma venne più volte sbattuto contro un ficodindia dalle onde che, superata la ferrovia e la strada, erano giunte fin là. Non si trovò una sega per amputargli la gamba spezzata e morì qualche giorno dopo di cancrena mentre il mare, di nuovo calmo, si riempiva di navi, cariche di medici e di medicinali.
“’Din ‘sta rua c’è ‘na bella rosa/ch’apparteni a mia/si caccarunu putrendi cosa/mi veni mi parra ‘cu ‘mia”. Dodici anni dopo, nella rua di donna Maria – che aveva preso un nuovo marito da cui aveva avuto altri due figli – Giovanni, bello, bruno e fiero, ‘iettava ‘u capudannu, con una combriccola d’amici, ritmando il canto su triangoli di ferro battuti. L’ultimogenito di donna Francesca, che la mattina del terremoto aveva disincastrato il padre, Santo, dalle macerie che lo coprivano fino al collo, era da poco tornato dall’America, dove aveva lasciato in una tomba il più caro dei suoi fratelli, morto in miniera.
Per primo si alzò don Carmelo, il tutore della primogenita di don Saverio (la seconda era stata affidata ad un’altra zia), e diede una voce a donna Maria e a suo marito Diego, nella casa a lato: “Presto, che fate ancora a letto?”. Donna Maria si rassegnò ad alzarsi, la porta fu aperta e i giovani invitarono le donne a ballare. La prima a uscire nel ballo fu zia Serafina. Alta, coi capelli ricci, gli occhi neri e le labbra carnose, la moglie di don Carmelo era la più bella della contrada. Ballò anche donna Maria e nelle giravolte della villanella, anche lei che non aveva mai un sorriso sul volto duro, sembrò bella. Giovanni si rivolse a Cilla: “E voi non ballate?” e la prese per un braccio. “Non so ballare” rispose Cilla, bionda e sottile, arrossendo. Nello spiazzo davanti alle due case, sotto la luce della luna i suonatori continuarono a strimpellare fino al mattino.
Quando don Carmelo fidanzò Cilla ad un cugino, benestante e scemo, d’un altro ramo della famiglia, Giovanni le mandò un biglietto: “O ti decidi o me ne torno in America”. La fuga non fu una cosa difficile. Tra le loro case c’erano solo pochi metri di strada, tra gli alberi di bergamotto e gli oleandri. Quando Cilla uscì verso il tramonto, l’aria era quieta e all’orizzonte le montagne della Sicilia apparivano come una nuvola grigia e rosa. Giovanni l’aspettava a metà strada, dove il vallone si faceva più piccolo per via dei rovi selvatici che vi crescevano. In un minuto furono a casa da don Santo e donna Francesca. “Finora – disse don Santo – sei stata parente. Ora sei figlia”.
Non c’erano soldi per la carrozza e al municipio e in chiesa, a sposarsi, andarono e tornarono a piedi. Ma, la notte della Vigilia, le gistre si riempirono di crispelle, con lo zucchero, con l’uva passa, con la ricotta, col baccalà e con le alici.

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