C’è stato un tempo in cui non c’era il telefono. Non millenni fa. Semplicemente, fino all’inizio degli anni sessanta. A casa mia, il telefono arrivò nell’autunno del 63 – epoca indimenticabile per molte ragioni, a partire da quel telegiornale serale che ci precipitò nell’orrore dell’uccisione di John Kennedy – e divenne ben presto un bene collettivo. Nel senso che i vicini di casa, che ancora ne erano sforniti, facevano capo a noi per comunicazioni importanti: cosa che mi dava, talvolta, ruolo di postina nell’andare a riferire di chiamate di questo o di quel parente. Nelle occasioni solenni, poi, c’era il rito delle telefonate ai familiari sparsi per l’Italia, con relativa pre-chiamata al centralino e possibilità di parlare, magari, qualche ora dopo. La teleselezione, la possibilità di parlare con qualcuno senza un intermediario – siete in linea – sarebbe sembrata, in seguito, un miracolo.
N. era, a quel tempo, colono del cavaliere M. E venne pure lui, un giorno, a fare un telefonata. Non so quale fosse l’argomento della conversazione, inframmezzata da continui: “Si, cavaleri”, “Comu riciti vui, cavaleri”, “Aviti ragiuni cavaleri”, pronunciati con voce ossequiosa, piegandosi in avanti come per un mezzo inchino e portando ogni volta la mano alla coppola, come per un reverente saluto. Ma, nell’adagiare la cornetta, il commento fu di ben diverso tenore, facendo riferimento a precise parti anatomiche del suddetto cavaliere. Che la cornetta non l’aveva ancora posata, per cui sentì. E non gradì.
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