Non le riusciva proprio quel centro. Leggeva le spiegazioni e riprovava, ma niente. Alla fine, ci aveva rinunciato. Una sera, alla tv, in uno di quei quiz ascoltati in sottofondo, la domanda finale fu: “Qual è la domenica che precede la Pasqua?”. “La domenica delle Palme”, rispose il concorrente. Donna C., che non aveva mai perso una Messa in vita sua, alzò la testa dalla coperta che stava completando e, rivolgendosi al marito seduto sul divano con vari cuscini a fare da poggia testa, disse con assoluta sicurezza: “Questo ha perso i soldi. E’ la domenica in Albis”. Quando il presentatore annunciò festante che il concorrente, avendo azzeccato la domanda, aveva vinto parecchie decine di migliaia di euro, le si era (ri)aperto un mondo. “Accavallate il punto in quello precedente”, non voleva dire, come lei pensava, “in quello di dopo” bensì “in quello di prima”. Andò a riprendere giornale, filo e uncinetto. Dopo una settimana, chiunque entrasse in quella stanza non poteva che ammirare il più bel centro che avesse mai visto.
Donna C. – che aveva la sapienza filtrata da una riflessione costante sui fatti e le persone tanto affinata da consentirle uno sguardo di conoscenza preveggente – da piccola era andata a scuola solo per due anni (c’era molto da lavorare in campagna e le femmine era meglio che non si mettessero troppe parole in testa) ma aveva centuplicato tutto quello che, nel tempo, aveva assorbito da alcuni maestri e maestre, variamente incontrati/e.
Quando doveva usare a penna – una ricetta sentita in tv, per esempio – ripensava ancora ad un parroco di oltre mezzo secolo prima: “Quando scrivi, tieni a mente come parli. Quando le nostre parole finiscono in i, in italiano finiscono in e: pani si scrive pane; le u sono o; quando diciamo: chi boi? Allora devi mettere la vu: che vuoi?”. Così diceva don Q., quando faceva lezione sulle doppie da togliere, sulle ‘nd, ‘nda che diventano nel, nella. Uno dei fratelli di C. e altri suoi coetanei, terrorizzati dal compito d’italiano, presero buoni voti ad un concorso che temevano impossibile e si sistemarono: “Nessuno ce l’aveva mai detto. Io ancora ora ci penso a che devo togliere o cambiare, se scrivo qualcosa…”.
D’aspetto imponente, voce tonante e di modi decisi, uno sguardo che faceva tremare i fedeli – “tre erano le autorità, in paese, il maresciallo, il medico condotto, F., e lui” – don Q. conobbe anche la galera, per il fallimento della cosiddetta “banca dei preti”. Diventato cieco per le schegge finitegli negli occhi nel corso di un bombardamento del seminario, per anni, fino alla morte, celebrò tutti i giorni l’unica Messa che sapeva a memoria.
E memoria meritano, comunque, quelle sue esercitazioni di traduzione simultanea, quelle sue lezioni, che definirei di Linguistica applicata.
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