martedì 27 luglio 2021

Saverio Strati, un grande del Novecento italiano

 


È da qualche giorno in libreria Tutta una vita di Saverio Strati, edito da Rubbettino trenta anni dopo la stesura del testo. Ne parlerò. Per ora, riprendo due mie recensioni che non si trovano sul Blog.

 


La prima riguarda Noi lazzaroni:

https://www.zoomsud.it/index.php/cultura/105719-le-recensioni-di-maria-franco-noi-lazzaroni-di-saverio-strati

Avevo già i miei 27 anni. Ero uomo. Ma che uomo sei se ti manca il lavoro e il mondo si rifiuta di darti una mano? (…) Ci domandiamo spesso come l’Italia sia andata avanti con tanto malcostume e disorganizzazione. (…) La guerra non aveva cambiato la condizione di noi lavoratori. Solo protestare si poteva, parlare tra noi in piazza, o nella sede del partito. Qualcuno proponeva di rompere tutto, com’era avvenuto a Caulonia, di squassare il paese, di dare fuoco alla casa del prete e del barone. Ma il segretario della sezione raccomandava la calma, la prudenza, l’ordine. La rivoluzione violenta era inconcepibile, assurda. Bisognava saper lottare col voto.»

Tornato per qualche giorno nel reggino, Salvatore, ormai emigrato da anni, narra – un po’ a se stesso, un po’ ad un amico che sogna di trarne un libro – la propria vita: il rapporto conflittuale col padre, uomo dal carattere difficile e mastro muratore bravissimo che, con durezza, gli ha insegnato il mestiere, («il mestiere (…) è sapere e arte insieme»); l’insofferenza nei confronti del regime fascista e il disprezzo nei confronti del barone Fofò, potente del luogo; la fame mai placata dal poco pane che gli toccava; i litigi con la madre, che lo tormentava perché procurasse, dopo la morte del padre, pane per tutta la famiglia, («la mancanza di lavoro e di avvenire provoca i nervi»); la fuga verso la Svizzera: «Vivevo un incubo che non potrò dimenticare. In corpo non avevo che odio smisurato verso i governanti, verso i ricchi che mi avevano sbattuto fuori casa.»

In Svizzera, ha vissuto per qualche tempo in una baracca con quindici persone, ma il lavoro gli ha fruttato ben presto un’autonomia mai vissuta e la possibilità di aiutare la famiglia d’origine e farsene una propria e di far studiare il fratello minore. Le difficoltà non sono scomparse: «L’opinione pubblica è incapace di pietà, di amore, di commozione. Ma si sentono la coscienza a posto, gli svizzeri: hanno fondato la Croce Rossa. Nessuno può immaginare cosa noi sopportiamo in quel paese. Nessuno. I giornalisti raccontano frottole. (…) Che vadano a vivere nelle baracche, nei lager di Baden, in quattro anime in una stanzetta di tre metri per tre. Non si è liberi di fare un rutto in tranquillità, non ci si può concentrare nei propri pensieri. Se togliete questo piacere a un lavoratore non so proprio cosa gli rimanga di interessante nella vita. »

Il prezzo è stato e continua ad essere alto, ma la realtà del presente non è identica a quella del passato: «Se confronto l’esistenza di quegli anni, il modo di vivere di tutti, a oggi e al mio personale modo di vivere e di tutti quelli come me che lavorano al Nord e ci tornano non più da umiliati pezzi di merda che dovevano sberrettarsi davanti ai cappelli che non si degnavano di risponderci e che ora sono scomparsi, polverizzati e i cui rampolli sono di un’ottusità e di un’ignoranza inimmaginabili, il cuore mi si allarga. Certo è una vittoria che abbiamo ottenuta a caro prezzo. Ognuno ha imparato, anche il più ottuso, che il progresso non si arresta più e che altro d’importante avverrà a favore e a premio dell’intelligenza.»

Anche in Calabria la povertà estrema ha ceduto il posto ad un crescita di consumi: sulle tavole quotidiane è apparsa la carne di vitello. L’ambiente, pur con qualche modifica, resta chiuso e non si vede un effettivo sviluppo economico e sociale: «Dicono che non ci sono più caprai nell’Aspromonte. Sono scomparsi perfino i vaccari che aravano i campi; né fabbri ci sono che costruiscono vomeri. Non ci sono sarti né calzolai. Tutti hanno preso il volo. (…) Non mi ci adatterei più a quest’ambiente. Desidero tornare a casa, da mia moglie e dai miei figli. Dagli amici di Baden, dagli amici della Militarstrasse. Da lassù ci sfugge il vero dramma della nostra terra abbandonata e imbruttita. Da lassù non avvertiamo l’agonia dei villaggi, dei nostri vecchi. A chi arriva dal verde, dal tutto ordinato e pulito e lindo e operoso, salta all’occhio questa specie di preludio al deserto che è diventata la costa che si affaccia sullo Ionio.»

Pubblicato nel 1972 e attualmente fuori commercio (è possibile trovarne qualche copia cartacea sui siti internet), Noi lazzaroni di Saverio Strati affronta il tema dell’emigrazione: ancora attuale, per la Calabria, quasi cinquanta anni dopo: con la variante (l’aggravante?) che siamo passati da un’esportazione di braccia ad un’esportazione di cervelli.

Documento importante sulla Calabria tra fascismo e secondo dopoguerra e sul lavoro (quello che manca, quello che è soltanto martirio, quello che è puro sfruttamento, quello che è esaltazione delle conoscenze, dell’esperienza, dell’intuito), con una critica forte ad un sistema economico incapace di produrre un’adeguata crescita sociale e ad una tradizione fortemente patriarcale che rendeva le donne, «né più né meno che delle asine che vanno bardate in tutti i momenti in cui se ne ha bisogno», Noi lazzaroni è una prova narrativa di grande interesse.

Nel monologo-dialogo del protagonista, sapido di umori, di insofferenze e di passioni e in una ben costruita compresenza di più livelli temporali, con stile asciutto e linguaggio sobrio, Strati riversa nelle vicende di Salvatore la personale esperienza di migrante in Svizzera, un amareggiato e risentito senso civile e la consapevolezza che, come si scopre nel finale del romanzo, ogni uomo, magari senza volerlo e neppure saperlo, può innescare per/contro se stesso e gli altri, tragedie che non lasciano scampo.

Zoomsud 8 giugno 2019


 

 

La seconda riguarda La teda

https://www.store.rubbettinoeditore.it/rassegna-stampa/le-recensioni-di-maria-franco-la-teda-saverio-strati-rubbettino-07-06-2020/

«Camminavamo da più di quattr’ore per quelle brutte strade delle montagne di Terrarossa, che è un paesetto proprio nel cuore dell’Aspromonte. Eravamo quattro muratori: io, Costanzo, mastro Cosmo e mastro Gianni. Parlavamo di tante cose. “A Terrarossa la gente fa luce con la deda” diceva Costanzo, che già c’era stato, a Terrarossa. “E com’è possibile fare luce con una scheggia di pino?” fec’io. “Lo vedrai da te” mi disse Costanzo. “Non c’è la luce elettrica come al nostro paese; né usano il petrolio o la lumiera ad olio. A Terrarossa c’è altra gente, altro modo di vivere”. Non riuscivo ad immaginare gente diversa da quella del mio paese, io. “Io non capisco come può essere questa gente!” esclamai. (…) “Non è che la gente sia diversa dalla nostra o da noi stessi, ma è il paese che è diverso. Non c’è la strada rotabile, manca la farmacia, il medico non c’è mai. È l’ambiente che è disgraziato. E tutto dipende dall’ambiente”».

C’è un luogo della Calabria narrato quanto Africo? Da Zanotti Bianco a Stajano a Gioacchino Criaco, al film di Calopresti tratto dal libro di Pietro Criaco, sono stati in tanti a raccontare un paese di fascino primigenio, come bloccato in un ferma-immagine, quasi una piccola Pompei, dall’alluvione del 1951.

Il primo a farne materia di romanzo è stato Saverio Strati, con La teda, pubblicato nel 1956 da Mondadori ed ora ripubblicato, nell’ambito della ristampa di tutte le sue opere, da Rubbettino.

Il quindicenne Filippo arriva a Terrarossa, nome dietro cui si cela Africo, contento «perché non avevo mio padre vicino e divenivo più libero, incominciavo a diventare più importante. Ora mi davo perfino ad amoreggiare con le donne che lavoravano con noi. Prima non le potevo neppure guardare, le donne, con mio padre che non mi dava un po’ di respiro, con mio padre che non mi dava pace con le sue prediche. Ora no, incominciava una vita nuova per me.» Desidera «essere un bravo muratore. Essere come mastro Gianni, che sapeva fare tutto, e come mastro Antonio, che pigliava un progetto in mano e te lo leggeva», dimostrare al padre di essere migliore del saggio Costanzo che, fidanzato della sorella, sarebbe presto diventato suo cognato. Ma il suo interesse primo – una frenesia, un’agitazione fisica e mentale – riguarda le donne: da corteggiare e, soprattutto, da possedere, anche con la violenza. Un atteggiamento che rischia di metterlo nei guai e che viene ampiamente ripreso dai suoi compagni: non perché offende le donne, bensì perché manca di rispetto ai padri, ai fratelli delle donne cui rivolge le sue attenzioni. Il grido tra le lacrime della dolce Cicca – «è meglio nascere capra che donna a Terrarossa!» – ben esprime la particolare subordinazione delle donne, in una realtà in cui la stragrande maggioranza della popolazione è subordinata e marginale.

Torrerossa è un paese poverissimo dell’Aspromonte, senza una strada che lo raggiunga. Lo abitano braccianti sfruttati da pochi possidenti, pastori senza mandrie e contadini dalla scarsa terra. Non c’è un medico, si muore facilmente di polmonite. Si mangiano segale e pane di lenticchie nere, spesso solo castagne; non arriva neppure la poca farina che, secondo le disposizioni del regime, toccherebbe agli abitanti. Siamo agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, molti giovani si trovano sotto le armi, chissà dove; le donne aggiungono a lavori più tradizionalmente femminili, anche più pesanti fatiche.

Filippo si trova davanti al perverso intreccio di interessi tra i ricchi proprietari, il potere politico, rappresentato dal potestà e dai carabinieri, e gli uomini d’onore che produce una miseria senza fine: «Se io sapevo scrivere, parlavo di Terrarossa. Ma nessuno mi credeva. Perché davvero non c’era da credere che la gente viveva a quel modo. Se io stesso non vedevo, non credevo.» Quando arriva il principale che paga i braccianti togliendo loro soldi e diritti, Filippo comincia a comprendere le cause di tanta grande ingiustizia – «Sentivo d’avere imparato tantissime cose, in poche ore. Mi pareva di essere cresciuto di dieci anni. Tutto mi cominciava ad essere chiaro» – e la necessità di allargare la propria visione del mondo grazie alla lettura.

Pervaso – come a suo tempo scrisse Vittorini – da allegro stupore e ingenua malinconia, La Teda è un romanzo di formazione e, insieme, un racconto neorealista che, a distanza di tanti anni, non ha perso la capacità di dare voce e corpo alla questione meridionale.Con una denuncia forte delle problematiche culturali, economiche e sociali (Strati è tra primi a indicare con chiarezza l’emergere della ‘ndrangheta), che non si risolve in vittimismo né in disperazione, ma piuttosto in volontà d’azione: «Sentivo che tutto il mondo si doveva allargare e che diveniva luminoso e pieno di nuove voci e di nuovi suoni. Sentivo tante cose in cuore che non vi so dire, e non desideravo altro che la guerra finisse domani, per vedere prestissimo le nuove cose che sorgevano, per ripigliare il lavoro con altro amore»

Narrato in una prima persona che segue sia gli eventi sia i pensieri di Filippo, privo di retorica, dalla lingua scarna e veloce, che non disdegna l’iterazione, e dalle rade ma potenti immagini, ricco di dialoghi di grande vivacità, il romanzo di Strati raggiunge livelli di altissima letteratura nella descrizione dell’alluvione che distrugge il paese. Una pioggia che richiama – per potenza narrativa – quella manzoniana che lava via la peste.

Da Zoomsud 7 giugno 2020

Sul Blog si possono leggere le mie recensioni a

Tibi e Tascia https://conchigliette.blogspot.com/2020/01/tibi-e-tascia-di-saverio-strati.html

e a

Il selvaggio di Santa Venere https://conchigliette.blogspot.com/2017/01/saverio-strati-le-mie-recensioni-per.html

 

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